Nella mostra i video di Syms sono mostrati su schermi sorretti da una struttura di acciaio viola con vuoti che permettono il passaggio tra i cinque episodi. La struttura aperta fa circolare i suoni. Foto Nathan Keay © MCA Chicago

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Nella mostra i video di Syms sono mostrati su schermi sorretti da una struttura di acciaio viola con vuoti che permettono il passaggio tra i cinque episodi. La struttura aperta fa circolare i suoni. Foto Nathan Keay © MCA Chicago

Martine Syms, la sitcom come critica sociale

Nella sua grande personale a Chicago l’artista losangelina esplora l’esperienza dei neri negli Stati Uniti in modo toccante e umoristico, senza tralasciare la «banalità nera»

La personale di Martine Syms «She Mad Season One» , in corso fino al 12 febbraio nel Museum of Contemporary Art Chicago a cura di Jadine Collingwood e Jack Schneider,  è un progetto concettuale che assume le forme di uno spettacolo televisivo semiautobiografico. Episodio dopo episodio, tutti  girati fra 2015 e 2021, la sitcom sperimentale segue le vicende di una giovane designer, che come l’artista si chiama Martine e vive a Los Angeles, e dei suoi tentativi di farsi strada nel mondo dell’arte. Composta da cinque opere video installate sui due lati di strutture metalliche disposte a zig zag nella galleria, «She Mad» tratteggia la vita quotidiana di Martine servendosi di scene costruite ad hoc, spezzoni di programmi televisivi, social media e meme.

Syms è nota soprattutto per i suoi lavori video incentrati sulla rappresentazione dei neri nella cultura popolare, spesso mediante la satira e i media digitali.  L’artista, che si autodefinisce «imprenditrice digitale», ha una pratica sufficientemente elastica da comprendere  lavori che spaziano tra vari media, tra  cui il graphic design e l’editoria, ma anche progetti di branding: tra le sue collaborazioni figurano Prada, Nike x Off White e Kanye West. Per Syms questo lavoro è parte di una pratica più ampia e una pragmatica questione di sopravvivenza come artista..

I video si distinguono anche per il carattere al contempo cinematografico e narrativo, talora analitico o, come in «She Mad», non lineare e sperimentale. Laddove in generale nei suoi lavori sono presenti spezzoni televisivi, «She Mad» di per sé è decisamente poco televisivo. Non ci sono archi caratteriali o trame; in compenso però il jingle iniziale è molto orecchiabile. Più che l’abbozzo di una serie leggibile di per sé  il progetto si presenta come una serie di appunti visivi su un possibile show futuro.
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Un effetto, questo, amplificato dal montaggio di foto simil istantanee tratte dall’archivio personale di Syms e proiettato tra un video e l’altro: parcheggi vuoti, mani che tolgono le candeline da una torta di compleanno, orsacchiotti giganti a penzoloni su sedie da ufficio, la copertina dell’album di una band il cui nome è un insulto razziale, palme che si stagliano contro un edificio vetrato, il contenuto di un frigorifero. Scattate nel solco di quello che per me è il vernacolo della scuola d’arte (flash scadente, composizione diagonale, un vago senso di alienazione, una sfocatura dell’urgente e dell’irrilevante) le immagini scorrono su tutti e cinque gli cinque schermi. Le foto conferiscono alla mostra una qualità etnografica in sordina, come se si stesse guardando l’intero contenuto del Google Drive di qualcuno.

«Blackness quotidiana»
Tutto questo ha un senso se si pensa alla costante attenzione di Syms alle narrazioni quotidiane nella produzione culturale nera. Nel suo lavoro del 2013 «The Mundane Afrofuturist Manifesto» l’artista critica i principi fondamentali dell’Afrofuturismo («la connessione tra il Passaggio di mezzo e i viaggi nello spazio è a dir poco inconsistente»), elogiando invece una sorta di «Blackness» quotidiana. In un contesto culturale che troppo spesso presenta i personaggi neri come perenni «altri», sensazionalizza la sofferenza dei neri o cancella del tutto l’identità e la violenza strutturale, a Syms interessano le possibilità politiche di una banalità nera. In «Intro to Threat Modeling» (2017), una rappresentazione tridimensionale dell’artista accenna dei passi di danza indossando una maglietta con su scritto «To Hell With My Suffering» («Al diavolo la mia sofferenza»).

Nel contesto di questo più vasto e suggestivo progetto, i momenti di chiarezza narrativa o teorica assumono un ulteriore significato nel plasmare l’opera nel suo complesso. Uno dei culmini è la trama del secondo video, «Laughing Gas» (2016), citazione di un vecchio film muto nel quale una donna recatasi dal dentista riceve da questi un’iniezione di ossido di azoto. Nel video di Syms, Martine va incontro alla stesso destino. La vediamo seduta sulla poltrona dal dentista, intenta a guardare il cellulare. Poco dopo averle estratto il dente del giudizio, l’assistente alla poltrona la informa che la sua assicurazione sanitaria non copre il prezzo del conto di 1.700 dollari e le chiede se ha un modo alternativo per pagare («Magari vuoi chiamare paparino?»). Martine scappa dallo studio e sale su un autobus, ma essendo ancora sotto l’effetto del gas esilarante non riesce a smettere di ridere. La scena rimanda sia alla storia degli abusi medici contro i neri americani sia alla costosa farsa del sistema sanitario statunitense.

C’è però un momento nel primo video della serie, «A Pilot For a Show About Nowhere» (2015), che fa capire perché per questo progetto Syms abbia evitato convenzioni narrative. Presentato come episodio pilota della stagione, l’episodio si apre con Martine che immagina come dovrebbe essere il programma: «La sequenza di apertura dovrebbe avere una serie di fotogrammi di Los Angeles, dice Martine nelle vesti di narratrice. Probabilmente dello svincolo autostradale 1-10-10, e manco uno di quella merda di Hollywood».

L’episodio passa in rassegna spezzoni dei primi spettacoli e la lunga storia degli stereotipi razzisti al cinema e in televisione; Syms fa risalire la prima sitcom a uno spettacolo radiofonico doppiato da due attori bianchi con il volto truccato di nero, a sua volta basato su un «minstrel show» (forma teatrale originale statunitense nata tra 1830 e 1840 e a sfondo razzista, Ndr). In una delle molte sequenze di conversazioni riguardanti la rappresentazione dei neri in televisione, un intervistato osserva che per quanto «The Cosby Show» sia riuscito ad attirare molti ascoltatori neri presentandone i benestanti personaggi come una famiglia normale alle prese con i problemi di tutti i giorni, in realtà cancellava del tutto le sfide reali che la classe lavoratrice nera e povera deve affrontare. Evitando una rappresentazione chiara o una linea narrativa, quella che suggerisce Syms con «She Made» è una strategia per evitare tali insidie. L’artista non può fare fiasco con il soggetto, perché questo rifiuta di ridursi a contenuto.

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Una delle possibilità offerte dal presentare lavori simil televisivi in uno spazio espositivo è quella di giocare con il senso di linearità tra gli episodi.
Syms si serve in modo avvincente dell’audio, con suoni che si rincorrono tra gli schermi. La struttura in acciaio dipinta di un viola intenso che taglia lo spazio (Syms racconta che il suo uso peculiare di questa tonalità, quasi un marchio di fabbrica, costringe le persone a dire «il colore viola» ad alta voce, un riferimento al famoso romanzo di Alice Walker del 1982) consente di muoversi tra gli episodi senza seguire un ordine stabilito. Anche se allestiti in successione cronologica, da destra a sinistra, gli schermi sono installati su entrambi i lati della struttura e i vuoti tra le griglie rendono semplice il passaggio da un’area all’altra.

L’ultimo episodio di «She Mad», intitolato «Bitch Zone» (2020), visibile su un grande schermo a Led trasparente in un angolo del retro della struttura d’acciaio, è una parodia dell’esperienza vissuta in prima persona dall’artista a 13 anni in un campo estivo tenuto dalla supermodella Tyra Banks. Ambientato nel 2000, l’episodio è recitato da coetanee di Syms (il loro impeccabile senso della moda anni Novanta, con la riga centrale, le collane di conchiglie eccetera eccetera, contribuisce a rendere verosimile il tutto). Un personaggio di nome BBQ prende la scena di fronte ai campeggiatori e si lancia in un discorso motivazionale sulla «body positivity». 

La scena prende una piega chiassosa, quando BBQ fa partecipare le ragazze a quella che dovrebbe essere un’attività di team building. Secondo BBQ, poiché negli Stati Uniti non si discute abbastanza di razza, è giunto il momento di parlarne apertamente pronunciando ad alta voce diversi stereotipi razziali. «I bianchi non digeriscono le spezie», asserisce una partecipante; un’altra ribatte: «I neri hanno le unghie spesse». «Gli asiatici non hanno le ghiandole sudoripare», grida una terza.  Girato in rosso e nero, il gruppo si infervora e la camera ruota verso l’alto quando le attrici cominciano ad attaccarsi fra di loro.

È un finale d’effetto per «She Mad», per la mostra, per la stagione. È umoristico e allo stesso tempo quasi inguardabile nella sua satira puntuale di quanto sia difficile parlare di identità e violenza strutturale in un Paese così illuso sulla propria storia che l'insegnamento della schiavitù nei programmi scolastici rimane una questione divisiva.  In «Bitch Zone», la telecamera di Syms si diletta nel caos, trasformando il dolore in intrattenimento. E come spettatori, anche noi partecipiamo allo spettacolo. «Al diavolo la mia sofferenza» dichiara Martine, autrice, avatar o personaggio, sul retro della sua maglietta,  tentando di modellare il voyerismo nella misura in cui ne conosce sia il potere strutturale che l’impossibilità di evitarlo.

Una veduta dell’installazione di Martine Syms, «She Mad Season One» al Museum of Contemporary Art Chicago. Foto Nathan Keay © MCA Chicago

«Intro to Threat Modeling» di Martine Syms (2017). Cortesia dell’artista e di Bridget Donahue, New York

Redazione GDA, 24 ottobre 2022 | © Riproduzione riservata

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