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Le radici della natura si celano nel mito

Giuseppe Penone da Gagosian e da Fendi all’Eur: «In “Apollo e Dafne” di Bernini c’è la sintesi del mio lavoro. È un’opera legata a un confine labile nella percezione della realtà e della vita, in cui uomo e natura si svelano su un piano di equivalenza»

Silvano Manganaro

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La nuova stagione espositiva nella sede romana della Gagosian Gallery comincia sotto il segno di Giuseppe Penone (Garessio, 1947), con la mostra «Equivalenze» aperta dal 27 gennaio al 15 aprile. Non solo; contemporaneamente, l’artista sarà presente nel quartier generale di Fendi all’Eur con un altro importante intervento. 

Giuseppe Penone, può darci un’anteprima di ciò che vedremo da Gagosian?
È una mostra che si sviluppa attorno all’idea del contatto, inteso come conoscenza ed equivalenza delle forme. Il concetto di base è che dell’acqua presa in mano può equivalere, per certi versi, a una manciata di terra… In mostra ci saranno delle opere a muro (disegno e rilievi) e nello spazio centrale ci sarà, stiamo ancora decidendo gli ultimi dettagli, almeno una scultura abbastanza grande. Sono lavori che hanno una radice in un ciclo che ho realizzato negli anni Ottanta e che si intitolava «Gesti vegetali». Tra quelle a muro, almeno una è un’opera che non è mai stata presentata. Anche le sculture, benché abbiano una radice in lavori di trent’anni fa, sono completamente nuove.

Questa è la sua quinta mostra (dalla prima, a Londra, nel 2012) all’interno delle gallerie del circuito di Larry Gagosian. Come si è rapportato a un ambiente così specifico come quello di via Crispi a Roma, nel quale torna a esporre dopo la mostra «Spazio di luce» del 2015? Come avviene la scelta dei lavori da presentare in una sala caratterizzata da una singolare forma ovale e dalla grandiosità delle dimensioni (23x13x6 metri di altezza)?
Innanzitutto va detto che c’è sempre, da parte della galleria, una grande libertà e un grande rispetto delle idee che sottopongo. Tendenzialmente presento opere che corrispondono alle preoccupazioni che ho in quel momento. Una mostra nasce dalla necessità del lavoro e, naturalmente, se lo spazio è bello come quello di Roma aiuta le opere ma, allo stesso tempo, se le opere non hanno una loro forza, lo spazio le distrugge perché le sovrasta. Qui si respira una specie di sacralità grazie a questa forma ovale; è uno spazio avvolgente, che crea quella centralità fondamentale per una scultura. Basterebbe mettere un piccolo oggetto nel centro che subito l’attenzione si concentrerebbe su questo oggetto. Ci sono poi grandi finestre che danno luce alla parete. Sotto tanti punti di vista è una sala fantastica, molto favorevole, ma ripeto, se il lavoro non ha la forza di far dimenticare lo spazio, allora è un dramma.

La monumentalità delle sue ultime opere, concepite spesso per spazi pubblici, è per lei un punto d’arrivo, una necessità contingente o un diverso modo di intendere il proprio lavoro?
Perché si fa un monumento? Un monumento si fa per conservare la memoria di qualcosa. Ci sono dei monumenti che si sviluppano in grandi dimensioni perché si immagina che, se la dimensione è importante, sarà più facile notarlo e memorizzarlo. Però anche le piccole dimensioni possono avere una persistenza nella memoria. Ad esempio, un quadro di Van Gogh nel nostro immaginario ha, magari, una presenza maggiore di una grande pittura pompier che nasce proprio con la presunzione di essere memorabile. Il monumentale è legato alla necessità dell’opera. È ovvio che se faccio un lavoro con un albero devo rispettarne le dimensioni. L’opera può essere di grandi dimensioni o può essere molto piccola. La capacità di memorizzazione nel tempo può essere equivalente. Non ne faccio né un punto di partenza né d’arrivo. Io ho sempre cercato di fare un lavoro basato sulla relazione del mio corpo con la realtà che lo circonda. Non è detto che la monumentalità sia un pregio. È una caratteristica dell’opera. Se si vuol presentare un’opera in uno spazio aperto deve avere una forza, una visibilità, altrimenti può essere distrutta, però non può essere la condizione sine qua non o il punto di partenza di un’opera.

Oltre a questa mostra, a che cosa sta lavorando al momento? Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
Il 2016 è stato un anno molto ricco, perché ho avuto parecchie mostre, tra le altre quelle al Rijksmuseum di Amsterdam. Adesso inizio l’anno con questa mostra da Gagosian e, contemporaneamente, ho la mostra al Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, che inauguro un giorno prima («Matrice», fino al 16 luglio, Ndr). È un progetto curato da Massimiliano Gioni che occupa lo spazio delle due gallerie dell’ingresso. Poi ci saranno, soprattutto, le opere che sto terminando per il Louvre di Abu Dhabi e che dovrebbero essere installate nel corso dell’anno. Direi che mi aspetta un altro periodo molto intenso.

In una sua intervista ha citato il mito di Apollo e Dafne definendolo «la sintesi del mio lavoro: uomo e natura che si svelano su un piano di equivalenza». Pensando anche alla celebre scultura di Bernini potrebbe dirci qual è, e soprattutto se c’è, una nuova mitologia che lega l’uomo alla natura?
Quella di Bernini è una scultura molto suggestiva e che ha una vitalità sorprendente. Vederla è sempre motivo di meraviglia, anche per come, con uno stesso materiale, Bernini è riuscito a far sentire e far vedere la morbidezza delle carni e la durezza della pianta. È un qualcosa che è legato a un confine labile nella percezione della realtà, della vita. Io credo che il mito sia basato su un’osservazione della realtà, che sia un racconto della realtà. Nel caso specifico, l’alloro (che in greco si dice, appunto, daphne), è un albero che reagisce al contatto liberando un odore (un profumo per noi) che risulta sgradevole a insetti e animali. È dunque una difesa, la reazione a un’aggressione. Io penso che sia questa l’origine del mito, ovvero la comprensione di un elemento della realtà. Sicuramente ci saranno miti contemporanei o in futuro, ma sempre legati a una verità che è quella della materia.

Silvano Manganaro, 16 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

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