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«Untitled #648» (2023), di Cindy Sherman (particolare). © Cindy Sherman. Cortesia dell’artista e di Hauser & Wirth

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«Untitled #648» (2023), di Cindy Sherman (particolare). © Cindy Sherman. Cortesia dell’artista e di Hauser & Wirth

Le mille maschere di Man Ray e Cindy Sherman

Al Photo Elysée due personali mettono a confronto il talento illusionistico e multiforme di due artisti fotografi tra i più influenti di ogni tempo, tra cui gli ultimi sconvolgenti autoritratti dell’americana

Gilda Bruno

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Lui, il primogenito di una coppia di immigrati russi di origine ebraica. Lei, la più giovane di cinque figli cresciuti secondo i principi della chiesa anglicana. Lui, nato agli sgoccioli dell’Ottocento a Filadelfia, Pennsylvania. Lei, all’alba del «Civil Rights Movement» a Glen Ridge, New Jersey. Lui è Man Ray (Filadelfia, 1890-Parigi, 1976), nome d’arte di Emmanuel Radnitzky, icona del movimento Dada e del Surrealismo, pioniere della fotografia ritrattistica e di moda. Lei, Cindy Sherman (1954), camaleontica artista statunitense è la regina dell’autoritratto per antonomasia.

Ad allontanarli, qualche decennio e chilometro di troppo: Man Ray si sposta a Parigi nel 1921, dove resterà fino alla sua morte, avvenuta nel 1976. Solo un anno dopo, Sherman, allora 23enne, inaugura «Untitled Film Stills» (1977-80): serie fotografica che la vede immedesimarsi nelle dive cinematografiche degli anni Cinquanta e Sessanta. A unirli, l’abilità di incanalare la propria visione del mondo in scatti capaci di stravolgerne completamente le regole. Dal 29 marzo al 4 agosto, gli innumerevoli volti di Man Ray e Sherman si rivelano in due vetrine concomitanti ospitate al Photo Elysée di Losanna.

Dapprima pittore, Man Ray si avvicinò alla fotografia per «affrancarsi dalla pittura e le sue implicazioni estetiche». Tra i primi a riconoscerne il potenziale, il visionario americano si spinse ben oltre i limiti del suo linguaggio, inventandone uno tutto suo. Dagli inimitabili editoriali di moda alla pungente documentazione delle case chiuse, passando per i suoi scatti senza tempo della capitale francese e gli iconici «rayographs» (fotogrammi ottenuti posizionando oggetti su carta fotografica successivamente esposta alla luce), Man Ray non ha mai smesso di reinventarsi, ma ha continuato ad attingere all’atmosfera elettrizzante della Parigi del dopoguerra per affinare la sua lente.
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La retrospettiva in arrivo in Svizzera celebra la sua «socialità multipla» attraverso ritratti di artisti, autori e intellettuali dell’epoca, da André Breton, Lee Miller e Marcel Duchamp a Pablo Picasso, Salvador Dalí e James Joyce, e uno sguardo al suo lascito seminale. C’è chi per comunicare punta l’obiettivo su ciò che gli sta attorno, e chi, come Sherman, preferisce «metterci la faccia», richiamando l’attenzione su sé stessa per arrivare al collettivo. Sì, perché la sua arte è tutt’altro che indirizzata verso l’interno. A dimostrarlo sono gli scatti surreali del suo ultimo progetto, cuore pulsante della nuova personale svizzera dell’artista: in queste immagini Sherman frantuma il proprio ego giustapponendo ritagli del suo viso catturati da angolature diverse.

Il risultato, dall’essenza inevitabilmente cubista, è apertamente provocatorio. «Sono disgustata dal modo in cui la gente si sforza di apparire attraente», confessò l’artista quasi quarant’anni fa. Fedele alla sua linea, l’ultimo progetto della fotografa rifugge dalla perfezione da social media, a difesa di un concetto di identità e bellezza che va oltre le apparenze.

Gilda Bruno, 26 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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