Le donne e le geometrie di Soheila Sokhanvari

Al Barbican Centre un’installazione con sculture a specchio, cineproiezioni, suoni, ologrammi e 28 miniature persiane dell’artista iraniana

Una veduta della mostra di Soheila Sokhanvari «Rebel Rebel», Londra, Barbican Centre, 2022 Una veduta della mostra di Soheila Sokhanvari «Rebel Rebel», Londra, Barbican Centre, 2022 Una veduta della mostra di Soheila Sokhanvari «Rebel Rebel», Londra, Barbican Centre, 2022
Louisa Buck |  | Londra

Soheila Sokhanvari è nata a Shiraz ma ha lasciato l’Iran all’età di 14 anni, trasferendosi in Gran Bretagna per frequentare la scuola un anno prima della Rivoluzione iraniana (1978-79). Per la sua mostra, «Rebel Rebel», in corso al Barbican Centre fino al 26 febbraio, Sokhanvari ha creato un’installazione con sculture a specchio, proiezioni cinematografiche, suoni amplificati e tre ologrammi di figure femminili danzanti. Al centro c’è una serie di 28 miniature persiane che ritraggono poetesse e performer dell’Iran prerivoluzionario, circondate da pitture murali a motivi geometrici.

Com’è nata la mostra?

Lo spazio The Curve del Barbican è molto interessante ma altrettanto difficile da gestire. Su questo muro alto 6 metri e lungo 90 dovevo trovare uno strumento per attirare l’attenzione sulla mia piccola voce. Volevo creare uno spazio devozionale, un tempio, che offrisse anche un punto focale per queste piccole opere, e ho pensato ai motivi geometrici utilizzati nelle moschee e negli spazi devozionali in Iran. Volevo immergere le persone nella cultura iraniana, non solo dargliene un assaggio. E volevo che queste donne cantassero. Il Governo iraniano ha vietato alle donne di cantare e ballare e io volevo restituire loro questa possibilità.

Le sue cantanti, ballerine, poetesse e attrici iraniane, vestono abiti occidentali prerivoluzionari. Perché ha scelto queste donne?

Ho lavorato selettivamente, perché ogni storia che volevo raccontare era un esempio di tenacia e di lotta contro il patriarcato.

Perché ha scelto una tecnica associata alle miniature persiane?

La mia è una tecnica molto lenta e ogni piccolo dipinto richiede dalle sei alle dodici settimane di lavoro. Trascorro l’intera giornata a dipingere e disegnare: ho un’esistenza da monaco. Ho realizzato a mano anche il monolite che si vede all’ingresso dello spazio espositivo: 27mila pezzi di specchio posati e glitterati a mano. Tutto è fatto a mano. In quest’epoca digitale credo che l’attività manuale sia molto importante perché restituisce agli artisti il loro potere.
«Hey, Baby, I’m a Star (Portrait of Fouzan)» (2019) di Soheila Sokhanvari (particolare). © L’artista. Cortesia della Kristin Hjellegjerde Gallery
A volte le donne raffigurate sembrano sommerse dai motivi in stile occidentale che le circondano.

Il pattern ha un suo linguaggio politico inconscio ed è stato storicamente associato alla narrazione nelle nostre culture. Queste donne sono ambientate in motivi sia iraniani sia occidentali perché volevo mostrare che stavano attraversando queste due culture; io stessa sono un collage di entrambe. Nell’architettura islamica, la decorazione geometrica è pensata anche per indurre una sorta di trance nello spettatore posto davanti alla massima bellezza. Così ho voluto creare questo delirio femminista. Mi ispiro anche al modo in cui Stanley Kubrick usa i pattern come metafora nella sua narrazione, ad esempio in «Shining», nel motivo del «nido d’ape» nella hall dell’hotel, o nelle forme falliche e uterine sul tappeto nella stanza 237.

Che cosa pensa della sua mostra nel contesto di ciò che sta accadendo attualmente in Iran?

Anche se l’ho scelto due anni fa, «Rebel Rebel» è un titolo molto attuale. Quello che sta accadendo ora in Iran non è più una protesta, è una rivoluzione. Prima ogni protesta aveva un leader, che poteva essere arrestato, assassinato o imprigionato. Ora invece ci sono molte donne poste di fronte a questa rivoluzione e questo è ciò che dà alla rivoluzione un tale potere. Io sono coinvolta in questo tumulto emotivo: posso guardare le cose positive e pensare che, per la prima volta nella mia vita, ho davvero qualche speranza che questo regime finisca. Ma allo stesso tempo le persone vengono uccise ogni giorno, quindi è tutto molto doloroso. Dopo tanti anni di lavoro su questo tema, sono anche orgogliosa del fatto che sto esponendo il mio lavoro in una mostra così importante. Per me è un momento di speranza e allo stesso tempo di tristezza.

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