«Morte di Germanico» (1627), di Nicolas Poussin. Minneapolis, The Minneapolis Institute of Art

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«Morte di Germanico» (1627), di Nicolas Poussin. Minneapolis, The Minneapolis Institute of Art

Le api dei Barberini hanno perso il pungiglione

Alle Gallerie Nazionali di Arte Antica la mostra è imponente per dimensioni (12 sezioni con opere da oltre 40 sedi italiane ed estere) ma non convince la ricostruzione dell’entourage culturale. Manca anche il tassello delle raccolte librarie del potente casato

Illustrare le vicende di uno dei pontificati più lunghi e culturalmente più significativi e complessi, quale fu quello di Urbano VIII, è certamente un’impresa non facile. La sfida è stata accolta da Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori e Sebastian Schütze che hanno curato la mostra «L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini», celebrativa del quarto centenario dell’elezione papale, a Palazzo Barberini fino al 30 luglio. La volontà di attirare l’attenzione del grande pubblico su una stagione straordinaria che ebbe importanti esiti non solo nell’ambito delle arti, ma anche in quello della filosofia e della scienza, ha spinto i curatori a non limitare l’evento espositivo all’arco di anni del duraturo pontificato (1623-44), né alla figura del pontefice, né alle sole vicende artistiche.

L’imponente mostra si articola in ben 12 sezioni, ciascuna delle quali avrebbe potuto essere un’esposizione a sé per l’importanza degli argomenti. Ben illustrato è il ruolo rivestito dalla realizzazione del palazzo familiare all’interno dell’attività di autopromozione culturale e politica messa in campo dal pontefice, dai suoi parenti e dagli intellettuali che parteciparono all’ambizioso progetto. L’uso delle immagini, della letteratura, delle feste come strumento di propaganda è esemplificato da opere provenienti da oltre 40 sedi italiane ed estere. Tra queste figura Maffeo Barberini in veste di protonotaio apostolico, di collezione privata, esposto come opera di Caravaggio, senza l’uso di un opportuno «attribuito a», tenuto conto della controversa storia critica del quadro, riportata puntualmente nel catalogo da Sebastian Schütze, che non omette perplessità circa la resa pittorica di alcune parti.

Come opera di Simone Cantarini è presentato l’intenso «Ritratto di Antonio Barberini junior», considerato come il prototipo per altri due ritratti del cardinale già assegnati allo stesso pittore. La visione del dipinto acquistato dallo Stato ed entrato nella collezione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica consentirà agli studiosi di fare le loro valutazioni. In merito alla disamina del contesto culturale, dispiace che da parte degli storici dell’arte siano disattese le nuove categorie storiografiche e linee di ricerca che comprendono dissimulazione, eterodossia, libertinismo e che riguardano la storia intellettuale della prima età moderna e in particolar modo quella romana.

In fatto di dissimulazione e nicodemismo basti pensare alla doppiezza con la quale i Barberini gestirono l’affaire Galileo, combattuti tra curiosità e ragion di Stato. Durante i primi anni del pontificato di Urbano VIII, l’Università la Sapienza vedeva coinvolti galileiani e lincei che scomparvero solo dopo il processo, con l’unica eccezione di Benedetto Castelli costretto dai Barberini a non abbandonare Roma. Dalla Francia, con la quale i Barberini avevano stretto intensi rapporti per arginare il potere spagnolo, arrivarono a Roma non solo artisti, ma anche eruditi e filosofi fra i quali i libertini Jean-Jacques Bouchard e Gabriel Naudé. Entrambi al servizio dei Barberini, erano amici di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc al quale Maffeo si era legato a partire dai suoi soggiorni a Parigi dove nel 1620, proprio su iniziativa del Peiresc, erano stati pubblicati 30 suoi poemi.

Il composito ambiente barberiniano vedeva protagonisti personaggi come Tommaso Campanella o Antonio Oliva, teologo di Francesco Barberini, finito suicida molti anni dopo per sottrarsi alla tortura in seguito all’accusa di empietà professata nella libertina Accademia dei Bianchi. Leone Allacci nel testo encomiastico Apes Urbanae si sofferma sugli intellettuali affiliati all’Accademia degli Umoristi in odore di libertinismo, fino a tessere l’elogio di Gassendi, in chiusura della biografia di Scheiner. Stupisce, pertanto, leggere nel saggio di Caterina Volpi che «non libertini né dissidenti» ci furono tra gli intellettuali e gli artisti all’ombra del pontificato di Urbano VIII. Intellettuali libertini e anticonformisti ci furono senza dubbio e sotto la spinta dei loro orientamenti filosofici i committenti cominciarono ad avanzare nuove richieste in fatto di generi e soggetti alle quali gli artisti cercarono di rispondere.

Tenere conto del variegato entourage culturale è essenziale per comprendere committenze barberiniane come la «Morte di Germanico» ordinata da Francesco Barberini a Nicolas Poussin, eccezionalmente portata in mostra da Minneapolis. Giustamente Sebastian Schütze nel catalogo riconduce il raro soggetto al successo di Tacito che però va inquadrato nell’affermazione del pensiero stoico, non dimenticando che fu proprio Francesco nel 1675 a pubblicare sotto anonimato la prima traduzione italiana dei Ricordi di Marco Aurelio, fondati sulla dottrina stoica.

Un tassello fondamentale assente nella mostra è quello che riguarda le raccolte librarie barberiniane, vero vanto familiare, imprescindibili per capire e inquadrare adeguatamente le curiosità intellettuali degli esponenti del potente casato. E forse Antonio Barberini potrà apparire meno «debosciato» (così è definito nella didascalia del suo ritratto attribuito al Cantarini) alla luce dei suoi vasti interessi culturali che lo spinsero ad assumere atteggiamenti anticonformisti e a custodire dipinti come l’«Et in Arcadia ego» di Guercino, curiosamente assente nell’esposizione, pur essendo uno dei rarissimi dipinti ancora presenti a Palazzo Barberini.

La «caccia libraria» fu una delle attività che vide maggiormente impegnati i Barberini, all’insegna di quell’universalità del sapere tanto sostenuta da Naudé. Per accaparrarsi libri introvabili, furono disposti a usare ogni canale, fosse quello della Repubblica delle Lettere o quello della rete dei vicari apostolici. Nota a riguardo è la lettera spedita il 18 settembre 1677 dal cardinal Francesco al vicario apostolico nelle Province Unite per avere notizie «attorno un libro manoscritto in materia di Ateismo dello Spinosa... e di procurarne un esemplare».

Urbano VIII e i Barberini furono anche questo. Uomini appassionati che inseguirono un’idea universale del sapere, nel tentativo impossibile di coniugarla con la ragione di Stato e la difesa della dottrina. Tutte le contraddizioni e la grandezza di quell’età e di quei personaggi trapela dalle emblematiche parole di Tommaso Campanella, che il primo febbraio 1639, a tre mesi dalla sua morte, scriveva da Parigi ad Antonio: «Resto promptissimo ad ogni suo comando con lealtà filosofica e non cortigiana, perché io vivo come scrivo, e Nostro Signore mi conobbe, con tutto che altri procurassero che mi disconoscesse. Il secolo futuro giudicherà di noi, e al fin Dio».

«L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini»,
a cura di Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori, Sebastian Schütze, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini, 18 marzo-30 luglio 2023

L’autrice è docente di Storia dell’Arte moderna, Accademia di Belle Arti di Roma
 

«Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior» di Simone Cantarini (attribuito a), Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini

Dalma Frascarelli, 23 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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