La Via Appia, la Regina di tutte le strade

In 70 opere grafiche dal Cinquecento al Novecento non solo il primo percorso lastricato al mondo, ma un luogo di stupore e ammirata contemplazione nel corso dei secoli

«Sepolcro di Cecilia Metella sulla via Appia» (1761-67), particolare della matrice di Giovanni Battista Piranesi
Guglielmo Gigliotti |  | Roma

Dal 19 settembre al 7 gennaio 2024, l’Istituto Centrale per la Grafica, diretto da Maura Picciau, offre alla visione uno dei cuori caldi della collezione: la mostra «Regina Viarum. La via Appia nella grafica tra Cinquecento e Novecento», curata da Gabriella Bocconi, presenta 70 delle 300 opere conservate, aventi a tema la più romantica delle strade.

Sono disegni, incisioni, matrici, libri, fotografie di artisti-viaggiatori, anche se molti di essi decisero di fare di Roma la loro seconda patria, o, come diceva della città eterna Gogol, «la prima patria del cuore». Iniziata dal censore Appio Claudio Cieco nel 312 a.C. per collegare Roma a Capua, venne prolungata in 120 anni di avanzamento della Repubblica romana verso il sud, prima fino a Benevento, e poi fino a Brindisi, porta marina verso l’Oriente e la Grecia.

Fu detta già in antico Regina Viarum perché era davvero la regina delle strade, e non solo per essere stato il primo percorso lastricato al mondo, ma perché adorna, nei suoi primi chilometri, fino alle falde dei Colli Albani, di magnifiche tombe e mausolei, un museo in mezzo alla campagna romana. Di queste grandi architetture funebri, e delle statue che le guarnivano, i millenni ridussero in polvere almeno il 95 per cento, ma quanto rimasto è bastato a fare della strada delle strade un luogo di stupore e ammirata contemplazione.

Fu così per l’incisore Étienne Dupérac, il primo vedutista a Roma della storia dell’arte, che nella città del papa visse tra il 1559 e il 1578, firmando immagini di monumenti antichi e moderni, nonché vertiginose carte topografiche dell’intera città, con il nome di Stefano Duperac. Il suo lavoro grafico, compreso quello svolto lungo i basoli della via Appia, rappresenta una preziosa fonte documentale sui resti della città e dei suoi dintorni, visti 450 anni fa.

Se Dupérac è il primo, Luigi Rossini (1790-1857) è l’ultimo grande vedutista delle mirabilia romane, prima dell’avvento della fotografia. Considerato in vita l’erede di Piranesi, del grande incisore veneto «romanizzato» (immancabilmente in mostra), il ravennate non meno «romanizzato» fece suo lo spessore delle ombre, assunte a veicolo drammatizzante di un’espressività romantica.

In mezzo a questi due estremi, è fitta la compagine di artisti che fornirono all’aristocrazia europea in viaggio in Italia, uno sguardo indimenticabile dell’Appia: da Jacob Philipp Hackert, amico di Goethe (che disteso sull’Appia si fece ritrarre da Wilhelm Tischbein), al francese Nicolas-Didier Boguet, al neoclassico Felice Giani.

L’avvento della fotografia permise a pittori e incisori di immettere nell’opera suggestioni dell’intimo, come rivela il disegno dell’illustratore simbolista Walter Crane, e ancor più l’opera di Umberto Prencipe. Nato a Napoli nel 1879, a Roma dal 1897, espresse nelle sue visioni campestri d’aura postimpressionista un sentimento lirico di adesione ai luoghi solitari, proprio come era, ed in parte ancora oggi è, la via Appia.

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