In una lettera del 1950 a Pierre Matisse, Alberto Giacometti scrive: «Se uno pensa suo malgrado a una foresta, alla sabbia o una stanza etc., fa bene ma non deve dirlo in anticipo». Romain Perrin, conservatore all’Istituto Giacometti di Parigi decide di prendere in contropiede il visitatore esplorando l’inestricabile rapporto tra l’opera, l’artista e la natura della sua terra natale.
Il paesaggio e la natura non sono mai stati associati all’opera di Giacometti. Per questa ragione, l’Istituto presenta i legami nascosti tra le opere e la natura di Stampa, villaggio d’origine dell’artista sulle rive del lago di Sils a Majola, nel Cantone dei Grigioni in Svizzera. Come attestano i primi schizzi e acquerelli, in parte inediti e mai esposti al pubblico, Giacometti s’ispira al paesaggio dei dintorni nel quale è cresciuto.
Nel Gabinetto di Arti Grafiche dell’Istituto le opere si svelano in una progressiva esplosione di colori. Vi si riscontra anche l’evoluzione dell’artista in base alle diverse influenze tra cui quella del cubismo. Le opere consacrano Stampa che l’artista visita ogni anno. Qualche tratto basta al maestro per ridipingere tutta una memoria. Sono dunque la sua sensibilità e il suo amore per il paesaggio ad aprire la mostra e a inebriare lo spettatore.
Nella sua produzione più tardiva, la natura si affranca dal paesaggio pittorico in due dimensioni per integrare la scultura. Se le forme organiche s’iscrivono perfettamente nel linguaggio scultoreo dell’artista, non per questo si deve trattare di un gesto deliberato. Solamente una volta conclusa l’opera, l’artista è in grado di scorgervi le tracce di Stampa che continuano a risorgere suo malgrado in differenti forme come vestigi della terra natale di Giacometti.
Le sue silhouettes, a volte slanciate verso il cielo come alberi, altre stese per terra come frammenti di rocce, partecipano tutte a quella che Romain Perrin definisce «dialettica del corpo-paesaggio». È proprio questa corrispondenza pervasiva tra natura e corpo che dà il nome alla mostra. L’allungamento fibroso delle «Femmes debouts» (1959-1960 e 1961-1962) o ancora le figure della «Clarière» (1950) fanno pensare a fusti d’albero personificati che dialogano tra loro proprio come farebbero delle persone.
Una simile interpretazione si rende ancor più manifesta quando si scopre la «Grande femme debout II» (1960) che per la sua altezza e la sua densità di materia sottilmente lavorata si offre al visitatore come un tronco alle soglie di una foresta. Nelle superfici dei bronzi riecheggia l’universo minerale e la materia immobile sembra comunque vivere nell’ampiezza dei suoi movimenti. Possiamo riconoscervi lo slancio naturale che accompagna il gesto creativo dell’artista attraverso il suo lavoro d’impronta e di prospettiva.
Giacometti aggiunge e toglie materia. I gesti danno vita a opere cui l’artista dona l’apparenza della sedimentazione e dell’erosione come in «Buste d’homme» (1956). Le sculture sembrano ugualmente cristallizzate tra stato solido e stato liquido e fanno talora pensare al magma fossilizzato di un vulcano.
Infine, la sistemazione delle opere e il modo in cui esse si fondano con la scenografia della mostra trasportano il visitatore nelle foreste della Stampa. Lo spettatore si trova così a misurare lo spazio delle sale i cui muri sono disseminati di cipressi e paesaggi montagnosi, perfetta cornice alle sculture di Giacometti. Le opere sono dunque osservate attraverso un prisma geologico e la mostra torna a far respirare all’artista un soffio minerale.
Traduzione di Mariaelena Floriani
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