La scopetta e tre monticelli

OGGETTI PER LA BELLEZZA NELL'ARTE | Curiosando nel corredo di Bianca Maria Sforza

«Ritratto di Bianca Maria Sforza», attribuito a Giovanni Ambrogio de Predis, 1493 ca, Washington, National Gallery of Art
Paola Venturelli |

Sino al 1975, quando venne abolita con la riforma del diritto di famiglia, la dote era una questione molto seria. Un «tesoretto» consegnato allo sposo «per sostenere i pesi del matrimonio» e che il marito più o meno coscienziosamente si impegnava a curare e a gestire. Sottratto alle sue cure per la secolare sfiducia nelle capacità aministrative femminili, le sarebbe stato restituito se il coniuge fosse morto o nell’infausto caso del fallimento del matrimonio. Riguardava ogni strato sociale.

Naturalmente l’ammontare della dote, in denaro, oggetti e beni immobili, segue i livelli di ricchezza ed era diverso a seconda delle possibilità finanziarie. Si poteva andare da pochi capi vestiari e gioielletti di scarso conto a liste infinite di abiti e monili, di argenti, suppellettili, biancheria e mobiglia, edifici e terreni. Dettagliatamente descritte e prezzate tutte le voci figuravano in un elenco, da allegarsi al contratto nuziale redatto davanti a un notaio prima della celebrazione del matrimonio.

Non si sottrae a questa pratica neppure Bianca Maria Sforza, figlia del duca di Milano Galeazzo Maria e di Bona di Savoia, nipote del potente Ludovico Sforza detto il Moro. Di lei sappiamo poco. Appartiene infatti alla schiera delle «silenti» che lasciano traccia solo in quanto pedine nello stritolante gioco del potere. Nata il 5 aprile 1472, a due anni viene promessa con una dote di 100mila ducati a Filiberto I di Savoia che però muore adolescente nel 1482. Segue un tentativo di matrimonio nel 1484 con Alberto II di Baviera, fallito. Quindi, nel 1487, si pensa al figlio naturale di Mattia Corvino, re d’Ungheria, Giovanni duca di «Oppanie e di Lipponia, conte di Humad», «zoppo e deformatissimo»: questa volta sono promesse in dote 100mila lire in oro e cinquantamila in «jocalibus».

Ma l’improvvisa morte di Mattia nel 1490 senza che la successione di Giovanni venga assicurata fa saltare anche questo progetto. Ecco allora nella primavera del 1493 palesarsi sullo scenario il trentaquattrenne vedovo Massimiliano d’Asburgo, re dei Romani e poi imperatore germanico. È quantomeno piacente, sembrerebbe. In una delle Novelle Matteo Bandello lo descrive infatti come «persona grande e di membra ben porporzionato con un aspetto veramente imperatorio». Le nozze sono fortemente volute da Ludovico il Moro, in cerca del tanto agognato titolo comitale, di fatto comprato assegnando alla nipote una dote più che cospicua: ben trecentomila ducati d’oro e altri 100mila espressamente sborsati per il titolo di duca, oltre a un corredo strabiliante.

Le nozze avvengono il 30 novembre a Milano, in Duomo, per procura, sontuose e principesche. Tocco eccezionale lo dà il modello della colossale statua equestre progettata da Leonardo da Vinci raffigurante Francesco Sforza, esposto davanti al castello di Porta Giovia. Finite le cerimonie, Bianca Maria parte per Innsbruck accompagnata da un numeroso corteo, raggiungendo il marito che la considererà molto poco e quel poco solo «per honore et debito del matrimonio». Morirà il 31 dicembre 1510, senza avere dato figli al consorte. Quindi un matrimonio inutile secondo la logica del tempo.

L’«Inventario de zoie, argenti, paramenti, veste, drapamenti et tapezarie quale se dano alla serenissima Madona Bianca sopra la dote» era stato stilato il 18 novembre. Un interminabile elenco trascritto pazientemente da Felice Calvi (1888). «Argenti per la credentia» e quelli per la «cappella», abiti (camore, vestiti, mantelli e sopravvesti di varie fogge), cinture e cinturini preziosi, non mancano 24 paia di calze, altrettante di scarpe e di pianelle, cuffie e cuffiette, gorgere, lencie, camice, paramenti da letto, telerie, seggiole, cuscini, 20 paia di cassoni dorati, «selle» (comprese le 24 per le dame al suo seguito), arazzi, tappeti… E ovviamente i gioielli, strabilianti e costosissimi.

I prezzi vanno dai 9mila ducati in giù, passando anche per i 1780 di una collana composta 178 «grosse» perle. Al vertice sta la collana d’oro con la divisa sforzesca delle «semprevive», una specie di cocuzzolo roccioso dal quale spuntano tre pianticelle (sempervivum tectorum): assunta a simbolo di resistenza per il suo carattere perenne era appartenuta alla nonna Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza, significando che la casata viscontea anche se estinta si perpetuava attraverso lei in quella degli Sforza. Prezzato 600 ducati compare anche un curioso pendente «in forma de brustia» (cioè di «scopetta»), con il «manico» composto da un rubino, una «turchesa» e uno smeraldo tagliato a cuore, mentre le «sete» (setole) sono formate da 9 diamanti e 5 perle «tonde» (le più costose); sul retro figura la lettera «L» in diamanti. Non è chiaramente l’iniziale del nome di Bianca Maria, ma quella dello zio Ludovico, al quale spetta anche l’impresa «della scopetta», di norma accompagnata dal motto MERITO ET TEMPORE.

Si tratta di un gioiello di tipo araldico su cui mi ero trovata a ragionare tempo fa (1996), quando iniziavo a studiare il sistema vestimentario e l’oreficeria milanese, anche riconoscendolo nel ritratto di Bianca Maria eseguito da un pittore leonardesco (Giovanni Ambrogio de Predis?), conservato alla National Gallery of Art di Washington. Doveva essere ritenuto particolarmente significativo dato che losi riproduce fedelmente nel dipinto. Pende dalla lencia, il nastro prezioso messo intorno alle tempie, fermato alla cuffietta ricca di gemme e completata dal coazzone.

Ma nell’inventario dotale e nel dipinto (un ritratto ufficiale, dove nessun dettaglio è lasciato al caso) la glorificazione di Ludovico e degli Sforza non si fermano qui. Passa anche attravero il motivo decorativo del ricco broccato auro-serico scelto per confezionare l’abito dal taglio «alla milanese»: le grandi maglie ogivate fitomorfe ospitano infatti l’impresa della nonna, dalla quale la mesta consorte di Massimiliano I aveva ereditato il nome: la sempreviva che vediamo campeggiare sul bustino e sulla manica. Di un altro particolare, la cintura, avremo modo di parlare invece in un’altra occasione.

© Riproduzione riservata Due illustrazioni da un codice conservato alla Biblioteca Trivulziana
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