«Tavola imbandita» (1908) di Oscar Ghiglia

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«Tavola imbandita» (1908) di Oscar Ghiglia

La riscoperta di Oscar Ghiglia

La mostra a Palazzo Medici Riccardi, incentrata sugli anni Venti e Trenta, evidenzia influenze e originalità dell'opera del livornese

Livornese ma fiorentino di adozione, Oscar Ghiglia è artista caro al collezionismo privato, che ne ha gelosamente conservato le opere (e tra i primi troviamo il critico Ugo Ojetti o Gustavo Sforni, mecenate illuminato e pittore egli stesso), ma poco presente nel panorama critico, museale, ed espositivo: se infatti gli sono state dedicate mostre in anni recenti (nel 1996 a Livorno e a Prato e a Viareggio nel 2018), Ghiglia raramente compare nelle rassegne più ampie sumovimenti artistici della prima metà del XX secolo. Un’assenza in parte legata, già in origine, al suo carattere, piuttosto schivo, avverso al mondo delle esposizioni, che la mostra a Palazzo Medici Riccardi «Oscar Ghiglia. Gli anni del Novecento» (sino al 14 settembre, catalogo Sillabe), intende colmare, ricollocando la sua figura in una giusta prospettiva critica e facendo emergere come la sua pittura sia del tutto in linea con le proposte del proprio tempo se non addirittura, in alcuni casi, ne preceda gli esiti. Come sottolineano i curatori Leonardo Ghiglia (bisnipote di Oscar), Lucia Mannini e Stefano Zampieri, Oscar Ghiglia riesce a interpretare in maniera molto personale i movimenti cui si accosta.

Il percorso, che si concentra sugli anni Venti e Trenta, intreccia temi e cronologie, ponendo l’accento sulla classicità, pur molto sintetica, della forma che genera nei suoi dipinti un’energia immobile, e sulla poesia muta che emana sia dalle nature morte, molto apprezzate da Giovanni Papini, sia dai quadri di figura, tutti accomunati da quel senso di enigma per cui, pur nella saldezza delle sue forme, conservano qualcosa di sfuggente e ineludibile. Allievo di Giovanni Fattori, Ghiglia guarda alle novità di Oltralpe e specie a Cézanne, ma, a differenza di suoi coetanei, delle opere del francese esalta la natura purovisibilista (Konrad Fiedler gli era forse noto tramite Benedetto Croce), cogliendo un aspetto che diverrà poi un caposaldo della letteratura critica su Cézanne nella seconda metà del XX secolo. Ritrattista apprezzato sulla ribalta della Biennale di Venezia già sullo scorcio del secolo, Ghiglia mostra poi, fin da opere quali l’«Autoritratto»del 1920, una comunanza di intenti col gruppo Novecento, di Margherita Sarfatti, negli anni del «ritorno all’ordine».

Una sala della mostra è dedicata ai dipinti di nudo femminile, posti in dialogo con un disegno dell’amico Amedeo Modigliani, mentre le due successive, nell’allestimento molto evocativo di Luigi Cuppellini, riuniscono opere che si calano nel clima del Realismo magico, condividendone precocemente l’atmosfera, come testimonia la sospensione che pervade i dipinti della modella allo specchio, un soggetto a lui caro. Massimo Bontempelli legava il Realismo magico alla lezione dei maestri del Quattrocento e ciò può non stupire per Ghiglia, formatosi in ambito macchiaiolo, dove la lezione dei «primitivi» era stata considerata più atta, nella sua sintesi, ad esprimere il linguaggio della modernità. La cinquantina di dipinti provengono perlopiù da collezioni private, tra cui l’Istituto Matteucci di Viareggio, ma anche, seppur in numero minore, da musei pubblici quali la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.

«Tavola imbandita» (1908) di Oscar Ghiglia

Laura Lombardi, 07 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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La riscoperta di Oscar Ghiglia | Laura Lombardi

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