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La mia facile, fallace, profezia

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Flaminio Gualdoni

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L’ho sempre pensato che quelli che affermano «io l’avevo detto» sono tendenzialmente insopportabili. Ciò che non mi sarei certo aspettato è che, giocando al paradosso come mi piace fare, cazzeggiando in punta di divertissement, ogni tanto mi ritrovi amici che mi affibbiano proprio l’epiteto strampalato di profeta de noantri.

Dunque nel dicembre 2012, Monti governante, nel numero 326 di questo giornale m’invento la stravaganza di un imprecisato genio ministeriale che all’oscuro di tutti sta concependo una riforma per abolire le Soprintendenze, nota «banda di produttori di scartoffie senza nessuna ragion d’essere, rottami di un’epoca passata»: «in effetti ce ne sono un sacco, tra archeologiche e librarie, architettoniche e storico-artistiche», e «ognuna ha dirigenti e un po’ di funzionari; loro dicono che son pochi, ma si sa, il dipendente pubblico si lamenta sempre per definizione e non è che si capisca bene cosa fanno». Dunque, «un soprintendente per regione (anche un paio, se son piccole) basta e avanza, e che si occupi di tutto: tanto l’uno per l’altro son sempre beni culturali, non è che si può star qui a perder tempo distinguendo tra un giardino all’italiana e una biblioteca d’oscuri preti».

Immagino anche «il solito Settis che farà il suo discorso indignato da disfattista», con qualche rarissimo giornalista a supporto: la qual cosa, bisogna ammettere, è una premonizione facile, dal momento che ormai è rimasto pressoché l’unico a farlo. 

Robetta, dunque, e che non fa neanche tanto ridere: giusto «un po’ per celia», come cantava quella Madama là. 

Oltretutto si è rivelata palesemente fallace. Non era un oscuro genio ministeriale a studiare a un dipresso tali vaccate, e poi la conclusione era completamente fuori bersaglio.

«Certo, bisognerà pur annunciarlo anche al ministro dei beni culturali, che la luminosa riforma è pronta. Ma tanto, quello sta zitto di sicuro», chiudeva il pezzo. Per dire quanto l’immaginazione vagava fuori strada.

La realtà vera l’abbiamo tutti sotto gli occhi. Ben due ministri e un presidente del Consiglio una siffatta luminosa riforma oggi non solo se la sono intestata, ma ne menano fieramente vanto. L’oscuro genio in realtà era visibilissimo, è quello che appare ogni dì in televisione a promettere ben altre cose che queste povere bislacche invenzioni e che mai ha mancato di ribadire che all’intollerabile «potere monocratico» delle Soprintendenze bisognava porre rimedio.

A lamentarsi pubblicamente della luminosa riforma sono stati in tanti, Coarelli, Giuliano, La Regina, Matthiae, Torelli, Zevi tra gli altri: archeologi dunque, ben si sa, gente noiosa, rompiballe, e notoriamente superflua in un Paese la cui antichità inizia con il Paleolitico. Sono gente che fa benissimo il suo mestiere di studioso e dunque è giusto che i giornalisti nostrani, quelli che dovrebbero raccontare il dibattito in corso, non li abbiano mai sentiti nominare e dunque ne omettano bellamente le parole. Ha preso una posizione netta anche Antonio Paolucci, ma che vuoi che sia: è stato per qualche decennio soprintendente e per di più a Firenze, dunque è di parte, e poi ora lavora per il Vaticano, uno stato estero, e quindi nelle nostre luminose riforme non ha titolo per mettere becco. Quindi, nessuna profezia. Questo mi rassicura un bel po’ sulla natura dei miei sproloqui dell’alba. Per il resto, aveva come sempre ragione il solito Gadda: «Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna». Figuriamoci poi nelle trovate ministeriali.

Flaminio Gualdoni, 21 giugno 2016 | © Riproduzione riservata

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