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«Exposure #124» di Barbara Probst © 2022 - VG Bild-Kunst, Barbara Probst

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«Exposure #124» di Barbara Probst © 2022 - VG Bild-Kunst, Barbara Probst

La fotografia scultorea di Barbara Probst

Conversazione ai confini della pratica fotografica tra Francesco Zanot e l’artista in mostra alla Triennale

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Redazione GDA

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Francesco Zanot: La mostra «Poesia e verità», alla Triennale di Milano fino al 22 maggio, raccoglie una selezione di 24 opere che ripercorrono oltre vent’anni della sua carriera, dal 2000 fino ad ora. Crede sia corretto sostenere che uno dei fili conduttori di questo percorso sia la fotografia stessa, che la sua ricerca sia rivolta in parte all’investigazione del linguaggio che utilizza, che oltre a essere uno strumento di lavoro costituisce anche un soggetto costante di queste immagini? Sono fotografie sulla fotografia?

Barbara Probst: Senza dubbio le mie prime esposizioni sono nate da una serie di domande sulla fotografia e sulla sua misteriosa relazione con la realtà. Forse si può dire che il mio lavoro sia un modo per ragionare attraverso le immagini sulla natura della fotografia e sul nostro rapporto con essa. Ma per me c’è di più. Penso che le macchine fotografiche possano essere considerate come dei sostituti degli esseri umani e che le fotografie siano dei sostituti di quello che noi vediamo. Se intendiamo la fotografia in questo modo, possiamo dire molto sulla nostra percezione e sul modo in cui osserviamo il mondo. Il nostro sguardo è fondamentalmente guidato dai nostri desideri e dalle nostre paure, dalla conoscenza e dall’ignoranza, dalle storie personali, dall’umore e dalle idiosincrasie. A seconda dello stato dell’osservatore lo stesso identico soggetto può essere visto nello stesso momento in modi molto differenti. Dunque credo il mio lavoro riguardi inevitabilmente la fotografia, ma ancora di più la percezione.

F.Z. Pur essendo così profondamente e puramente fotografico, il suo lavoro è estremamente aperto al confronto e al dialogo con gli altri linguaggi dell’arte. Spesso viene accostato alla scultura, dato il suo studio della disciplina nelle accademie di Monaco e Düsseldorf, ma anche perché le sue sequenze di immagini, riprese tutt’intorno ai soggetti, danno il senso della loro «rotondità» e tridimensionalità. Allo stesso modo credo che le sue opere abbiano una natura teatrale o cinematografica. Sono il frutto di una messa in scena e pur non seguendo un filo narrativo sono caratterizzate da un susseguirsi di colpi di scena. Jeff Wall aveva chiamato le sue opere «cinematographic photographs». Crede che, pure se radicalmente diverse, anche le immagini da lei prodotte potrebbero essere definite in questo modo?

B.P. Sono d’accordo sul fatto che il mio lavoro possa spesso essere percepito come cinematografico. Il motivo probabilmente è che la mia strategia di moltiplicazione dei punti di vista è una pratica comune nel cinema. Tuttavia nei film vediamo sempre un’inquadratura dopo l’altra: sono cronologici e il tempo scorre. Nelle mie fotografie invece il tempo si ferma ed è come se le immagini si allungassero nello spazio mostrando diversi punti di vista di uno stesso scenario. Per questo utilizzerei piuttosto il termine «photographic sculpture» per descrivere il mio lavoro. Ciò detto, traggo molta ispirazione dai tanti film che guardo, a qualsiasi genere o epoca appartengano.
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F.Z. Libri gialli, film thriller, serie tv noir. Le sue opere stimolano nello spettatore una reazione simile a quella con cui affrontiamo queste tipologie di racconti. Scatenano un atteggiamento spionistico, investigativo. Siamo detective alla ricerca di prove. È una questione di suspense. Da dove attinge le strategie che utilizza per mantenere il ruolo dello spettatore sempre attivo di fronte alle immagini? È come se lei rifuggisse la contemplazione statica, cercando di coinvolgere gli spettatori in un processo di costante partecipazione interpretativa, di lettura e rilettura. È d’accordo?

B.P. Sì, bisogna compiere un’intensa e movimentata attività di lettura, osservazione, riconoscimento e pensiero davanti al mio lavoro. Mi piace paragonare il processo di osservazione delle mie serie di immagini alla lettura di una poesia. Una poesia è una sequenza di parole, ognuna con un certo significato, ma le parole prendono vita soltanto all’interno di un contesto formato da altre parole. Sono soltanto parole fino a quando non le combiniamo tra loro durante la lettura. Solo allora prendono vita nella nostra mente e attraverso le associazioni si genera il significato. È in questo senso che considero le immagini delle mie serie come parole all’interno di una poesia. Ma quando leggiamo una poesia c’è un momento in cui il pensiero va oltre le parole, la mente si perde in campi sconosciuti e fantastica: si spinge in uno spazio oltre la comprensione, l’identificazione e il pensiero. Spero che ciò accada anche di fronte al mio lavoro.

F.Z. Senza ricorrere massicciamente a Photoshop o ad altri software di manipolazione delle immagini, le sue opere ci (di)mostrano che non possiamo fidarci della fotografia. Perché ogni immagine fotografica è parziale e nel mostrare qualcosa tiene nascosto molto di più. Nonostante questo e gli innumerevoli attestati sulla falsificazione della fotografia succedutisi a un ritmo sempre crescente negli ultimi trent’anni, pensa sia ancora possibile credere in questo genere di immagini? D’altra parte, la sua mostra in Triennale si intitola «Poesia e verità».

B.P. Al giorno d’oggi la fotografia è ancora il motore della propaganda. Rimane il più efficiente nonostante il fatto che tutti conoscano i modi in cui un’immagine può essere manipolata. C’è ancora una forte e incontestata fiducia nella fotografia come medium che registra la verità e riporta quello che è accaduto. È incredibile quanto potere conservi ancora oggi questo linguaggio. Date queste premesse, personalmente sono poco interessata alla manipolazione digitale delle fotografie, ma piuttosto mi interessa il controllo sull’immagine nel momento in cui viene realizza. Mi interessa la soggettività del fotografo e le decisioni che prende dietro la macchina, come il punto di vista, la profondità di campo, l’inquadratura, la distanza dal soggetto, la prospettiva e l’obiettivo. Queste opzioni rimandano alle condizioni che regolano il nostro vedere, l’atto di guardare il mondo. Quello che vediamo dipende dal nostro punto di vista, dalla posizione, dal nostro campo visivo. Vedere è tanto soggettivo quanto sentire, odorare e percepire. Come ho già affermato: ogni fotografia riflette il modo in cui osserviamo il mondo e alla fine si rivela una complessa combinazione di realtà e finzione, poesia e verità.
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F.Z. Il suo lavoro si fonda sulla ripetizione di un modello. Sappiamo che dal 2000 le sue opere sono composte da serie di immagini riprese simultaneamente da punti di vista diversi. È un atteggiamento che mi ricorda quello degli artisti dell’astrazione e del Minimalismo, i cui lavori spesso sono uniti da un modulo o una prassi ricorrente. Penso a Sol LeWitt, Carl Andre, Dan Flavin, Piet Mondrian, Lucio Fontana, Frank Stella, Barnett Newman... Penso a Raymond Carver e a Steve Reich. Fuori da questo elenco penso, ovviamente, ai coniugi Becher e a Giorgio Morandi, che John Berger aveva definito «un eremita rabbiosamente caparbio che borbotta sottovoce contro l’eccessiva semplificazione». Come definirebbe questo atteggiamento: concentrazione, insistenza o ossessione? Si tratta di una sorta di avversione nei confronti della diffusa e probabilmente inevitabile tendenza alla semplificazione?

B.P. Serve una buona dose di insistenza e ossessione per lavorare seguendo un unico set di regole per tanto tempo. Ma nell’intimo questa prassi regala tanta libertà quanti limiti sembra opporre osservandola da fuori. Secondo la mia esperienza le restrizioni costituiscono un innesco per la sperimentazione e l’invenzione. Ciò non significa che io sia favorevole alle restrizioni, ma quando si tratta di strategia artistica, queste possono scatenare capacità insospettabili. Quando le regole sono definite, allora diventiamo ingegnosi e intraprendenti.

F.Z. A questo proposito, ha mai pensato negli ultimi anni di realizzare un lavoro che non rispettasse questo schema ricorrente? Una sorta di eccezione alla regola, come la Notre-Dame di Le Corbusier?

B.P. Ci penso di continuo. Ma fino ad ora ha sempre prevalso il forte desiderio di tornare all’idea della moltiplicazione delle prospettive per visualizzare le mie riflessioni. Ma prometto che se mi verrà un’idea tanto brillante quanto quella di Le Corbusier, sarò felice di realizzarla.

GALLERIE D’ITALIA - TORINO
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«Exposure #146» di Barbara Probst © 2022 - VG Bild-Kunst, Barbara Probst

«Exposure #145» di Barbara Probst © 2022 - VG Bild-Kunst, Barbara Probst

Redazione GDA, 29 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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