Una veduta della mostra a Palazzo Fava. Foto di Marco Baldassarri

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Una veduta della mostra a Palazzo Fava. Foto di Marco Baldassarri

La Collezione Poletti a Palazzo Fava

Il sogno del collezionista imprenditore diventa realtà. 80 opere della sua importante raccolta d’arte emiliana raccontata da Cecilia Cavalca

«Senza sognare è impossibile collezionare opere d’arte: e forse è impossibile vivere», scrive Michelangelo Poletti, in calce al breve testo che nelle pagine iniziali del catalogo, La Quadreria del castello, presenta l’esposizione dei dipinti della sua importante raccolta di arte antica emiliana a Palazzo Fava di Bologna.

Michelagelo Poletti al suo sogno collezionistico ha saputo dare mirabile concretezza, non vi è alcun dubbio. Basta la più svagata delle passeggiate tra le oltre ottanta opere radunate in mostra a Bologna fino al 24 luglio per rendersene immediatamente conto. Ma Poletti ha anche trovato la chiave (ed è forse l’aspetto maggiormente stimolante del suo essere moderno collezionista di «antichi maestri») per reiterare e vivificare quel sogno visionario facendone l’elemento propulsivo dell’agire quotidiano: la condivisione.

Tutto ha origine con l’acquisto, una trentina d’anni fa, di un piccolo castello di pianura, edificato a non troppa distanza da Bologna, nelle campagne tra Budrio e Minerbio, evocato nel titolo del catalogo. Si tratta del Castello di San Martino in Soverzano, complesso residenziale fondato dagli Ariosti durante il XIV secolo e poi posseduto per oltre trecento anni dai Manzoli, aristocratici allora in forte ascesa sociale. Poletti se ne innamora.

Gli ambienti sono all’epoca totalmente privi d’opere, fatta eccezione per la pala d’altare di Ercole Procaccini nella cappella e due ritratti nella loggia. «Di qui l’esigenza, dichiara il nuovo proprietario del castello, di arricchire le numerose stanze con una collezione all’altezza del compito, privilegiando, in sintonia con il contesto, la pittura emiliana (dal Quattrocento al Settecento), senza vincoli troppo stretti». In altri termini, Poletti si prefigge fin da subito di selezionare opere d’arte in grado di condividere la peculiare valenza culturale del luogo che le accoglierà, accrescendone il portato.
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A questo primo e, per così dire, generativo, moto di apertura, se ne aggiunge ben presto un altro, non meno cruciale: l’individuazione di una figura capace di dare adeguato spessore scientifico al progetto mettendo in campo la propria competenza professionale. A Michelangelo Poletti si affianca lo storico dell’arte Angelo Mazza. Ma se i dipinti scelti per la fiabesca dimora privata devono configurarsi come un insieme in grado di contribuire, nel loro aggregarsi e distendersi entro un congruo arco temporale, alla migliore definizione della specifica geografia artistica locale, negli intenti del collezionista le operazioni effettuate per acquistarli dovranno essere «sostenibili, individuando un rapporto equo tra la bellezza di un quadro e la sua stima economica».

Accade così che non ci siano quadri di Guido Reni nella raccolta Poletti, ma eccellenti prove del suo allievo più ortodosso, Giovanni Andrea Sirani, e della figlia Elisabetta (incantevole il «Ritratto di bambino con vasi di fiori») e poi ancora di Simone Cantarini, presente con l’incompiuto e quasi estremo «Filosofo con compasso», un affascinate autografo riscoperto, cui fanno eco esempi alti dell’intenso e sprezzante verismo di Flaminio Torri, declinato in soggetti devozionali allora fortunatissimi, quali la Madonna con il Bambino addormentato in grembo.

Allo stesso modo, l’assenza di opere di Lorenzo Costa è supplita dalla possibilità di scoprire, sicuri di essere al cospetto di un testo pittorico affidabile, l’identità dell’assai raro Antonio Pirri, artista bolognese eccentrico, dal tratto pittorico particolarmente felice, che sappiamo a Napoli nel 1511; o trasportati in Romagna lasciarsi rapire, come accadde a Federico Zeri, dal ruvido naturalismo del cosiddetto Maestro dei Baldraccani, presente con il pezzo chiave, la «Madonna in trono con il Bambino e santi»: una pala d’altare monumentale commissionata dai notabili forlivesi di cui l’ignoto artista prende il nome, posta in origine, tutto fa credere, nella locale chiesa francescana osservante di San Biagio in San Girolamo, al fianco degli iconici affreschi della Cappella Feo: quelli progettati da Melozzo da Forlì e conclusi da Marco Palmezzano, distrutti da un bombardamento tedesco il 10 dicembre 1944.

Con il progressivo affluire delle opere al Castello di San Martino la raccolta privata, identitaria già negli intenti, prende nerbo fino a costituirsi in «vera e propria pinacoteca istituzionale» (Antonio Paolucci). Lo attestano i due poderosi volumi editi la scorsa estate, dove Angelo Mazza ordina e analizza nel dettaglio i «dipinti emiliani e di confine» dal XV al XVIII secolo, mettendo in fila 133 numeri di catalogo (oggi già in crescita).

Questo il backstage della mostra, questi i lavori che precedono l’atto di condivisione più recente e pregnante, quello che, riconoscendone il valore, regala ai visitatori il piacere di apprezzare le opere viste nell’originale e di discuterle senza necessariamente doversi addentrare nella gran messe di informazioni che abitano le pagine specialistiche. Ciò è possibile perché l’esposizione punta a raccontare ancora una volta la vecchia storia dell’arte, evitando d’impressionare l’osservatore con effetti spuri e fornendo, attraverso scelte mirate, le indicazioni adatte a valorizzare l’inesauribile vitalità dei dipinti collezionati.

Il cambio di dimora dei quadri, temporaneamente migrati a Palazzo Fava, ha infatti un fine più ambizioso del presentare la raccolta Poletti aprendo, per così dire, a tutti le porte del Castello di San Martino in Soverzano. La chiave di lettura è fornita dalla prima sezione espositiva, ospitata nella grande sala dove scorre il celebre fregio dei Carracci, con le storie di Giasone e Medea (concluso nel 1584). Lì vengono esibiti nella loro prospettiva storica quadri di Lorenzo Pasinelli, Donato Creti e di altri celebri artisti bolognesi, attivi a cavallo tra Sei e Settecento.
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Sono pittori che il conte Alessandro Fava, spiega la guida cartacea fornita gratuitamente al visitatore, accoglieva nelle sue stanze, trasformate in Accademia e dove si era provveduto ad allestire «un comodo ponte movibile» per rendere meglio accessibili alle giovani promesse le prove esemplari dei grandi maestri cinquecenteschi. Tra le molte sorprese, tre frammenti di mano del Pasinelli, ancora provvisti dell’antica incorniciatura e pervenuti nella quadreria Poletti in momenti diversi, ricomposti per l’occasione. Ci raccontano dell’impazienza del conte, collezionista lui stesso oltre che mecenate.

Sono ciò che resta di un pregevole dipinto raffigurante lo «Svenimento di Porzia», mai portato a conclusione perché l’illustre committente, esasperato dalla lentezza esecutiva dell’artista, lo ritaglierà ricavandone immediatamente, e con soddisfazione, tre opere autonome. Poco oltre, tra le prove del Creti (che a Palazzo Fava abitò pressoché stabilmente) si ammirano due tele realizzate quando probabilmente il pittore è appena ventenne, assieme a uno specialista di natura morta, forse Candido Vitali.

Raffigurano una bambina di profilo, seduta, e un ragazzo addormentato; le pennellate guizzano rapide, ritornano su sé stesse e impastano sugli abiti cromie cangianti e preziose, svelandoci toccanti incunaboli delle tessiture coloristiche probabilmente più sofisticate della pittura bolognese di primo Settecento. Ogni dipinto una storia, ogni stanza una scoperta. Procedendo, spicca nell’ultima sala un grande quadro di Domenico Maria Viani.

Immortala Sansone sopraffatto dai Filistei: accecato, incatenato e costretto a girare la macina della prigione guidato da un ragazzo. Si tratta di un dipinto posseduto in antico dal principe Astorre Hercolani: una composizione meravigliosamente ardita e arrangiata senza alcuna incertezza, dove Domenico Maria insegna come la lezione dei Carracci, a distanza di un secolo, possa mutare in grazia, senza perdere nulla in essenzialità e intensità espressiva.

L’intelligente scelta del collezionista invita, usciti da Palazzo Fava, ad allungare il viaggio fino a Cesena e a riscoprire un altro magnifico dipinto del più giovane dei Viani, il suo vero capolavoro (non ancora noto quanto merita): «Giove innamorato di Cerere». Sono certa che Michelangelo Poletti, sapendolo, ne gioirebbe.

Una veduta della mostra a Palazzo Fava. Foto di Marco Baldassarri

Una delle opere in mostra Foto di C. Vannini

Cecilia Cavalca, 06 luglio 2022 | © Riproduzione riservata

La Collezione Poletti a Palazzo Fava | Cecilia Cavalca

La Collezione Poletti a Palazzo Fava | Cecilia Cavalca