«Habitat 08°N» (2019) di Irene Coppola e Vito Priolo, installation view, «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali» (2022). Cortesia del PAV- Parco Arte Vivente, Torino

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«Habitat 08°N» (2019) di Irene Coppola e Vito Priolo, installation view, «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali» (2022). Cortesia del PAV- Parco Arte Vivente, Torino

La caccia come strumento di colonizzazione al PAV

A Torino Daniele Marzorati, Edoardo Manzoni, Alessandra Messali e Irene Coppola raccontano del potere della rappresentazione in ambito coloniale affrontando la questione di una natura colonizzata, di un esotismo e di un orientalismo imperanti

Nel 1827 un elefante indiano di nome Fritz arrivò alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, inviato dal viceré d’Egitto Mohamed Alì al re di Sardegna Carlo Felice. In poco tempo il pachiderma diventò l’icona del Palazzo, intrattenendo i visitatori dei Savoia con spettacoli e balletti nel parco dove viveva. Ma quando il suo guardiano storico morì, il suo comportamento cambiò: cadde in depressione e rifiutò di esibirsi. Nel 1852 il nuovo guardiano lo colpì con un tridente e l’animale reagì uccidendo l’uomo avvolgendolo con la proboscide. Nell’immaginario comune l’animale si trasformò in breve tempo da amata star a «elefante assassino» e, segnato dalla nomea di animale pericoloso, quello stesso anno venne soppresso con l’ossido di carbonio.

Oggi Fritz è conservato in tassidermia nel Museo di Scienze Naturali di Torino, dove nel 2015 è stata ospitata un’esposizione interamente dedicata alla curiosa vicenda («Fritz. Un elefante a corte»), che tuttavia nella rilettura di tali avvenimenti nel tempo presente ha mancato di far emergere un pensiero critico. I pochi anni passati da questa mostra sono sufficienti per cogliere la necessità di una riflessione sul tema della memoria coloniale e del suo portato nell’attualità. Un’urgenza che è motore della mostra «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali», visibile fino al 29 maggio al PAV Parco Arte Vivente di Torino. Curata da Marco Scotini, l’esposizione racconta del potere della rappresentazione in ambito coloniale, nel rapporto Africa-Italia e non solo, affrontando la questione di una natura colonizzata, di un esotismo e di un orientalismo imperanti.

In questa cornice vengono presentate le ricerche degli artisti emergenti Daniele Marzorati, Edoardo Manzoni, Alessandra Messali e Irene Coppola, archeologi di una storia sociale della natura, che indagano le rappresentazioni della caccia, dell’esotico, delle politiche espansioniste neoliberiste e della sperimentazione coloniale sulle piante. L’essere preda è una condizione costruita in rapporto ad altri soggetti: qualcosa diventa «cacciabile» per effetto di un processo di distinzione, gerarchizzazione o esclusione da ordini condivisi nei quali il predatore si riconosce.
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Proseguendo nell’indagine sulla decentralizzazione del modello egemonico della cultura occidentale in una prospettiva geopolitica rinnovata, la mostra s’inserisce in un filone di ricerca caro al curatore, in continuità con la mostra da lui stesso curata nel 2017 «Il cacciatore bianco», come traspare dalla semantica che accomuna i due titoli. Sono lontani i tempi di «Magiciens de la Terre» (curata nel 1989 da Jean-Hubert Martin al Pompidou), in cui una selezione di opere d’arte veniva presentata come primitiva, incontaminata e originaria. Qui il rapporto tra natura e preda s’inserisce nella «rottura del discorso» che mette in questione lo spazio liminale tra cultura e natura e si posiziona consapevolmente rispetto allo sguardo fautore della costruzione di un’alterità vissuta come sottomessa, perpetuata imperialmente e visivamente dall’Occidente.

Tra memoria, archivio e natura, tale posizione si evince da subito nella sala centrale del PAV. Accompagnati da «Senza titolo (Canti)» (2021) di Edoardo Manzoni, una registrazione di cinguettii riprodotti artificialmente da un cacciatore, si ha la sensazione di attraversare un «jardin de verre». Ci si sente in bilico tra due mondi: da una parte una sala dei trofei di stampo ottocentesco, dall’altra una giungla esotica in cui le sculture di Manzoni, come «Senza titolo (Fame)» (2020), cadono dall’alto riprendendo l’estetica delle trappole e mimetizzandosi tra le piante. Tale effetto è potenziato dalle stampe fotografiche a parete di Daniele Marzorati, «Archivio-Erbario etopico» (2020-21) e «Passers» (2021), quinte sceniche di un gioco tra artificiale e naturale.
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Riprendendo materiale d’archivio proveniente soprattutto dal territorio somalo a partire dagli anni Venti, Manzoni interviene su fotografie di scene di caccia cancellando la figura ieratica e possente del predatore e riflette sull’estetizzazione della violenza delle immagini realizzate durante il periodo coloniale. «Senza titolo (Caccia grossa)» (2022), ad esempio, mostra la sagoma del famoso cacciatore Francesco Basso tra le zanne di un’elefante a terra, insieme a due complici della popolazione autoctona. Allo stesso modo le trappole e i richiami per uccelli realizzati dall’artista s’interrogano sul paradosso degli ornamenti, sottolineando l’importanza dei processi mimetici tramite i quali l’uomo imita o costruisce «oggetti di scena» per prendere le sembianze degli animali o di qualsiasi entità che deve poi diventare la sua preda.

Daniele Marzorati ripercorre le tracce del rimosso coloniale nel territorio italiano, operando uno scarto tra le normative griglie museali e gli oggetti apparentemente neutrali lì esposti, come accade in «Kadù e Squalo martello - Cercando di far conoscenza con Omo e Giuba» (2021), fotografie di «oggetti» appartenuti alla collezione dell’esploratore Vittorio Bottego ed esposti al Museo di Storia Naturale di Parma. In una sua fotografia che ritrae un elefante, «Of the darker to the lighter - Atlante del corpo coloniale» (2018), il taglio dell’immagine crea l’illusione di un elefante vivo, che ci osserva, ma ciò che il fruitore vede è in realtà un animale cacciato in Kenya da Italo Balbo ed esposto a Tripoli nel 1939, trasferito negli anni ’50 al Museo di Storia Naturale di Udine (una vicenda che ricorda l’elefante Fritz, che fu peraltro il primo animale in Italia a essere immortalato su un dagherrotipo nel 1935).
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Nel libro Le Cacce all’Uomo, Grégoire Chamayou sostiene che nella storia degli esseri umani la demarcazione tra prede e predatori risale a tempi antichi, ma è con l'espansione del capitalismo che si razionalizza e raggiunge dimensioni mai viste prima. È il fenomeno messo in luce dal lavoro «Habitat 08°N» di Irene Coppola che, con Vito Priolo, ha lavorato a stretto contatto con la comunità indigena di Guna Yala (Panama), costruendo un codice di memoria capace di raccontare la storia del territorio, delle migrazioni e della cultura materiale locale. La sala espositiva che ospita il progetto è divisa in due parti da una struttura spartiacque tra villaggio e città che recita «Sin los habitantes no hay patrimonio», una frase manifesto dell’intera operazione. Un disegno a parete mostra l’evoluzione delle strutture abitative locali, suggerendo quali siano le influenze tecnologiche sul villaggio di Guna Yala da quando quest’area geografica è diventata un paradiso fiscale. Il lavoro di Coppola suggerisce come parlare di rimosso coloniale significhi confrontarsi con forme di oppressione che non appartengono solo al passato e ai tempi dello schiavismo, ma che anzi hanno a che fare con questioni che riemergono in configurazioni neoarcaiche.
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Le forme di colonialismo contemporaneo passano anche attraverso la perpetuazione del soft power di politiche economiche neoliberiste, come si intuisce dal progetto di Alessandra Messali «EMILIO SALGARI AND THE TIGER - A Story written in far away Italy, set in Guwahati 1870», risultato di una ricerca condotta dall’artista nello Stato indiano dell’Assam (2013-2016). Partendo dal fatto che Salgari non viaggiò mai fuori dall’Italia e scrisse più di 200 storie ambientate in Paesi «esotici», tra cui Guwahati, il progetto è un esperimento relazionale e d’archivio, nel quale le differenze tra testo e contesto riscontrate nei libri dell’autore vengono utilizzate come strumento per riflettere sulle logiche di rappresentazione culturale. Dopo un lungo periodo di ricerca, Messali ha realizzato una pubblicazione composta da vari estratti dei libri di Salgari, che ha poi messo in scena con la comunità di un college femminile locale, riflettendo con loro su cosa significhi essere rappresentate mediante un’azione teatrale. Nel compiere un atto di riappropriazione e di resistenza a forme di egemonia e omologazione, Messali adotta una morfologia della differenza, mostrando i meccanismi di un’industria culturale che alimenta l’immaginario dell’altrove.

Come racconta Marco Scotini, «la mostra non parla del cacciatore dal punto di vista antropologico, ma affronta la questione in senso più ampio, parlando di un passato più recente con cui stiamo facendo i conti anche ora, dopo la questione postcoloniale e decoloniale e i rigurgiti dei movimenti black. In Italia, tra i nostri artisti, non abbiamo tante figure che si sono occupate di questo rimosso, si fa ancora fatica. Per questo è importante incoraggiare queste ricerche».

«EMILIO SALGARI AND THE TIGER - A Story Written in Far Away Italy, Set in Guwahati 187» (2016) di Alessandra Messali, installation view, «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali» (2022). Cortesia del PAV- Parco Arte Vivente, Torino

«Habitat 08°N» (2019) di Irene Coppola e Vito Priolo, installation view, «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali» (2022). Cortesia del PAV- Parco Arte Vivente, Torino

Una veduta della mostra «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali» (2022) con le opere di Edoardo Manzoni e Daniele Marzorati. Cortesia del PAV- Parco Arte Vivente, Torino

Una veduta della mostra «La Natura e La Preda. Storie e cartografie coloniali» (2022) con le opere di Edoardo Manzoni e Daniele Marzorati. Cortesia del PAV- Parco Arte Vivente, Torino

Redazione GDA, 19 maggio 2022 | © Riproduzione riservata

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