Un particolare di «Head of Niobe» (2021) di Miroslaw Balka. Veduta dell’opera nello studio dell'artista, 2021. Courtesy l’Artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano

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Un particolare di «Head of Niobe» (2021) di Miroslaw Balka. Veduta dell’opera nello studio dell'artista, 2021. Courtesy l’Artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano

In conversazione con Miroslaw Balka per orientarsi nel «corpo della mostra» di Milano

Tra mito ed eventi appartenenti alla sua sfera personale, l’artista polacco da Raffaella Cortese costruisce una mostra che diventa storia collettiva

«nehtyM» è la quinta personale che Galleria Raffaella Cortese dedica a Miroslaw Balka (Varsavia, 1958) dal 22 settembre al 12 novembre. Già protagonista della retrospettiva «CROSSOVER/S», tenutasi al Pirelli HangarBicocca nel 2017 a cura di Vicente Todolí, l’artista ritorna a Milano, nello spazio di via Stradella 7, con un nuovo progetto di opere inedite: disegni e sculture che proseguono l’indagine avviata negli anni Ottanta sul delicato rapporto tra arte e vita, intrecciando le esperienze personali con l’immaginario della memoria collettiva. Filo conduttore di questa nuova mostra è il concetto di mito, esplorato attraverso tre momenti simbolici: Desiderio, Gravità e Unione.

Chiediamo a Balka di accompagnarci idealmente all’interno del percorso espositivo, partendo proprio dal titolo che è la versione speculare della parola tedesca «Mythen». «Il titolo della mostra, ci spiega l’artista, ha funzione di cornice, che mi aiuta a organizzare i pensieri. L’importante per me è che la cornice sia aperta a qualsiasi tipo di interpretazione, anche quella che più di discosta dalle mie idee. Questa è la vita della mostra. I miti che condivido qui a Milano sono profondamente radicati nella mitologia greca e sono collegati con Afrodite, Urano, Niobe e Diana».

Per sua natura, il fondamento del mito è interpretabile solo attraverso un processo simbolico, un processo che riunisce materiale e metafisico. Platone si riferisce al «symbolon» come a «uno composto di due», la metà visibile di qualcosa di impalpabile e occulto. Ecco allora che il primo di questi tre momenti simbolici, la metà visibile del Desiderio, si manifesta in forma di tre disegni di grandi dimensioni che rappresentano due personaggi della mitologia greca: Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza, e Niobe, figlia di Tantalo, che fu punita per l’arroganza con cui si vantava dei propri numerosi figli. Le due divinità appartengono alla storia personale dell’artista che le ricorda come i primi soggetti del desiderio, scoperti mentre curiosava tra i libri di mitologia in bianco e nero all’età di 12 anni. Temi ricorrenti, quello del desiderio e quello della memoria, che l’artista aveva esplorato anche in occasione della precedente mostra in galleria («In relazione al tempo», giugno e luglio 2017), quando aveva esibito l’opera «Paper from the Skull» realizzata con le pagine del suo primo giornale pornografico. Gli oggetti legati a particolari momenti della propria esistenza possono diventare paradigmatici di un’intera generazione o di un ambiente sociale: quello della Polonia del dopoguerra, quando Varsavia era una sorta di città fantasma popolata di negozi chiusi e case deserte.
Ho suddiviso la mostra in tre aree diverse e questo mi ha aiutato a capirne il corpo: il corpo della mostra. Come esseri umani, siamo rappresentati anche dai nostri corpi e i nostri corpi sono luoghi del desiderio. Non possiamo evitare la nostra sessualità. In Polonia, ai tempi in cui sono cresciuto, la sessualità del corpo era un argomento tabù. E naturalmente, se qualcosa è proibito suscita in noi maggiore attenzione. Le mie Afroditi sono Grandi e Nere, tuttavia io non sono Pigmalione.
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Gli altri due momenti simbolici della mostra, Gravità e Unione, sono caratterizzati da sculture realizzate con elementi diversi, apparentemente impropri. L’opera dal titolo «85 kg» per esempio, è un lavoro in cemento composto da forme differenti di vasi da fiori, ma ce n’è anche un’altra, «273 x 23 x 23 / NowHereWe», che é realizzata con campane provenienti da luoghi, culture e iconografie religiose diverse. Dalla fine degli anni Ottanta, la vocazione figurativa della sua scultura cede il passo a composizioni che risultano direttamente dai materiali e in cui il corpo, quello dell’artista, rimane esclusivamente come misura di riferimento per orientarsi e relazionarsi con lo spazio.
Le mie sculture sono sempre state interessate al dialogo con lo spazio. Scegliere i materiali è stato come comporre una poesia e trovare le parole giuste per la sua costruzione. La poesia non riguarda solo le parole. Riguarda lo spazio tra loro e, cosa più importante, riguarda i sensi. Essi modellano la scultura, io sono solo in ascolto.

Lei non è nuovo all’impiego di elementi di uso comune nel suo lavoro. Il legno, il sale, la cenere, il ferro, il vino, espressioni della realtà più consuetudinaria, assumono nella sua poetica significati nuovi e toccanti e veicolano la memoria del suo vissuto personale da una dimensione implicita, quella del sé, a una dimensione esplicita, quella del pubblico. L’opera «Heaven-Jerzy» che chiude la mostra, una carta da regalo dorata che rievoca il ricordo dell’ultimo Natale trascorso con suo padre, è esemplificazione di questo continuo rincorrersi di singolare e plurale e di come esso possa facilitare il cogliere la profonda reciprocità che lega artista e spettatore all’opera.
Non dobbiamo aver paura di condividere le nostre storie personali. Possono essere vere oppure no, ma è così che si costruisce la storia del mondo. Con un processo di scambio senza fine. Ed è bello che l’opera d’arte possa svolgere un ruolo importante in questo scambio.

«Afrodyta Knidos» (2021) di Miroslaw Balka. Veduta dell’opera nello studio dell’artista, 2021

Francesca Interlenghi, 21 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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