Per Sigalit Landau (Gerusalemme, 1969), artista multidisciplinare residente a Tel Aviv, la prossimità del Mar Morto è un qualcosa che è impossibile ignorare, influenzando l’estetica della sua produzione. «The Burning Sea», la sua nuova personale aperta fino al 17 giugno nell’Israel Museum, esplora il suo rapporto con esso, presentando opere che, realizzate negli ultimi vent’anni, racchiudono tutta l’interdisciplinarietà della sua ricerca.
Riflettendo sulla conformazione del lago salato, riferimento per questo corpus di lavori, Landau traduce i paradossi della località più profonda al mondo (situata a 400 metri sotto il livello del mare) in fotografie, video e sculture. Che siano oggetti scolpiti dal sale «miracoloso» del Mar Morto, o opere audiovisive che ne enfatizzano il ruolo simbolico in quanto confine naturale tra le realtà coinvolte dal conflitto israelo-palestinese, ciascuno dei lavori esposti guarda al Vicino Oriente come teatro di drastici cambiamenti climatici e aspre tensioni sociopolitiche.
«In un paesaggio desertico dove la sterilità del Mar Morto viene unicamente compensata dalla sua galleggiabilità, Landau si rivolge al mare per trasformare il ricordo più minaccioso in un oggetto di meraviglia», scrive David Elliott, curatore britannico, nella sua introduzione a Salt Years (2019), volume che racchiude due decenni di sperimentazione dell’artista in simbiosi con il mare salato.
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