I quattro progetti di tre giovani itineranti

MATTA porta Andrew Norman Wilson al Republic Milano

Un’immagine da «In the Air Tonight» di Andrew Norman Wilson negli spazi del Republic Milano
Filippo Berta |

Una galleria itinerante, una piattaforma nomade che invita gli artisti a sperimentare e  realizzare progetti inediti per poi trovare, di volta in volta, lo spazio più idoneo dove esporli temporaneamente. È nata così, un anno fa, MATTA, fondata dal 32enne Giulio Rampoldi, dal 33enne Pier Francesco Petracchi e dal 30enne Pietro Rossi. Tutti e tre i giovani galleristi provengono da esperienze in prestigiose gallerie internazionali come Massimo De Carlo e Pace Gallery. Il loro modello innovativo di galleria mescola la promozione culturale, tipica degli spazi non profit, alla tradizione delle gallerie, ben radicata negli anni Sessanta, dove si mette sempre il progetto dell’artista davanti alle logiche di puro mercato. Dopo «Cielofurto» di Francesco Tosini, «Travisato Travasato» di Francesco Snote e «Splinters» di Maximilian Arnold, è ora la volta, fino al 23 aprile, della quarta mostra: «In the Air Tonight» di Andrew Norman Wilson negli spazi del Republic Milano.

Da che cosa è nata l’idea di aprire una galleria? Quali obiettivi vi siete proposti?
Per l’esigenza di lavorare e progettare insieme agli artisti, creare dei percorsi con loro. Quando abbiamo aperto non volevamo chiamarla galleria, ma era il termine giusto per comunicare l’obiettivo di lavorare insieme agli artisti, creare mostre che esprimano le loro idee, e supportarli anche a livello economico. La galleria per noi è un contenitore di idee, luogo di scambio straordinario, gratuito e aperto a tutti.

Perché l’esigenza di chiamarvi galleria? Esistono altri modelli che permettono di lavorare a stretto contatto con gli artisti.
L’approccio è quello da spazio non profit, ma in realtà è una galleria che segue modalità differenti da quelle delle gallerie commerciali. Comprendiamo che gli artisti hanno bisogno della vendita per mantenersi economicamente, ma è importante che il loro lavoro circoli attraverso le mostre, le relazioni con istituzioni e collezionisti. Guardiamo al passato, ai tempi in cui se un artista voleva andare nel Grand Canyon e creare una spirale gigante, glielo facevano fare e poi dopo arrivava la mostra: adesso si chiede prima la mostra, per vedere come va, e poi si pensa ai grandi progetti. Noi cerchiamo prima di sviluppare il progetto, vagliamo tutte le ipotesi e se non siamo in grado di realizzarlo con le nostre risorse, cerchiamo altre modalità.

Sembra che il vostro modello sia molto più legato alle gallerie degli anni ’60, luogo connesso alla vendita ma anche spazio per la sperimentazione.
È il motivo per il quale abbiamo scelto di chiamarci così. Inizialmente, guardandoci intorno, non volevamo usare il termine galleria, poi abbiamo decostruito il suo ruolo nel tempo e ci siamo resi conto che tutto ciò che prima faceva una galleria, noi lo volevamo fare. Il momento storico per quanto possa far paura ci incentiva: stiamo assistendo a un vero e proprio cambio generazionale. I galleristi non hanno più la forza anche fisica di mettere la stessa energia che hanno messo in passato. Chi aveva delle cose da dire le ha dette, chi meglio e chi peggio. 

Anche la scelta di non avere uno spazio fisico ma ricercare una sede diversa a seconda della mostra proviene da questa volontà di dialogo e affiancamento alle esigenze dell’artista? In quale modo scegliete lo spazio?
Siamo itineranti per evitare di presentarci dagli artisti con uno spazio da riempire. Partiamo dal progetto dell’artista e cerchiamo il luogo più adatto per presentarlo. Muovendoci tra città diverse abbiamo inoltre la possibilità di creare nuove relazioni, un po’ come se fossimo un’etichetta discografica che porta i suoi musicisti in tour con spettacoli sempre diversi. Gli spazi che troviamo generalmente sono in un momento di transizione, stanno cambiando destinazione d’uso, sono in un periodo di inattività o in procinto di demolizione. Per esempio per la mostra di Andrew Norman Wilson abbiamo scelto il Republic, un club storico della Milano degli anni ’80.

Perché avete scelto questa location?

Abbiamo visto il video «In the Air Tonight» per la prima volta al St. Moritz Art Film Festival, ce ne siamo innamorati e siamo andati a New York per conoscere l’artista, Andrew Norman Wilson. Insieme a lui abbiamo costruito un’idea di mostra che partendo dal video parlasse di tematiche a esso inerenti come il sogno americano, l’individualismo e il protestantesimo. Ragionando su tutti questi discorsi abbiamo capito che il posto migliore per presentare il progetto era un locale dove ricreare un’estetica anni ’80 e non uno spazio espositivo classico. Il locale notturno è simbolo delle relazioni superficiali, di rapporti che si esauriscono nel giro di una sera. È anche un luogo dove si può fingere di essere chi non si è, mostrando, acquistando, offrendo. Abbiamo scelto Milano perché è la città d’Italia che va più veloce anche a livello di relazioni e di scambi. Il periodo espositivo coincide con i giorni dell’Art Week e del Salone del Mobile, quando tutto è frenetico e accelerato.

Che cosa racconta la mostra?
Quando Wilson parla di protestantesimo si rifà a L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Phil Collins, protagonista del video «In the Air Tonight», intorno al quale ruota tutta la mostra, è l’emblema della persona europea, bianca e protestante che arriva negli Stati Uniti attratto dal sogno americano. Riesce a fare fortuna staccandosi dalla band per intraprendere una carriera da solista e diventa un’icona. Il video è costruito solo con immagini d’archivio che provengono da film con l’estetica di Michael Mann, ad esempio, e dall’immaginario noir degli anni ’80. C’è anche un discorso di appropriazione di immagini: è un lavoro che nasce con la pandemia, periodo durante il quale Wilson ha guardato moltissimi film e non aveva la possibilità di portare avanti i progetti a cui stava lavorando.

A corollario del video che cosa viene esposto?
Fotografie e nuove opere, alcune d’ambiente e altre più classiche, e una parte di merchandising: magliette, cappellini, preservativi, audiocassette, fiammiferi ecc. Tutto l’immaginario viene riassunto anche in questa modalità di vendita, dato che l’idea di merchandising rappresenta un mercato veloce dove la qualità è a discapito della quantità, concetto alla base del profitto. Si tratta di una volontà di Wilson di effettuare una critica all’approccio americano rispetto a queste cose e avere delle opere che possano creare un’economia di scala: mettere in vendita molti oggetti per arrivare al prezzo di un lavoro classico. Alla base c’è un sentimento di frustrazione, lo stesso che lo aveva portato a scrivere una lettera con cui dichiarò di non voler più fare l’artista in un mondo dove «più propongo capolavori, più mi chiedono piccoli oggetti che si vendono facilmente». È emblematica l’ultima frase del video, che dice proprio: «Al sogno americano puoi credere solo se stai dormendo».

Nelle vostre mostre avete presentato un solo artista, poche opere, un grande progetto. Come si concilia con il collezionismo?
La mostra di Maximilian Arnold a Roma era sicuramente più classica, perché legata alla pittura, ma nello settimana di opening abbiamo dato vita a più situazioni diverse: un evento privato dedicato ai collezionisti, un momento di incontro aperto a tutti e una festa con musica techno. Per noi quell’evento è stato molto importante perché anche persone non abituate a frequentare gli spazi espositivi sono venute, si sono divertite e nelle settimane successive sono passate a vedere la mostra.

Le persone entrate in contatto con la vostra realtà in questo modo acquistano poi le opere? Molto spesso in Italia si parla del fatto che manca un collezionismo giovane.
Assolutamente! Il più grande successo della mostra di Arnold è stato che metà dei quadri è stato venduto a collezionisti sotto i 35 anni, alcuni dei quali italiani con un’impresa legata alla produzione in ambito creativo. Cerchiamo di essere il più indipendenti possibile dalle logiche del mercato, per mettere insieme un nostro circuito e un nostro giro di collezionisti, anche nuovi, restando comunque aperti a tutti.

Molte realtà si aprono al contemporaneo in maniera trasversale, a voi interessa affacciarvi ad altri ambiti? Che cosa significa per una galleria?
L’eterogeneità di programma, di modalità e di mostre è alla base del progetto. L’obiettivo è spingerci anche verso la musica e iniziare a considerare le varie sfaccettature del contemporaneo, senza limitarci ai soli artisti. Noi già lavoriamo con un gruppo di designer, The Back Studio, ma non essendo una galleria di design, il nostro lavoro consiste perlopiù nel trovare una situazione ideale per collaborare e presentare le loro idee, ad esempio scenografie per teatro, cinema e musica, progetti d’ambiente più che prodotti.

Finora non avete partecipato a nessuna fiera. È una scelta strategica?
Siamo aperti da un anno e stiamo ancora cercando di capire quali possano essere le fiere più adatte a noi. Le vorremmo fare e le faremo, non tanto per i collezionisti, ma perché le fiere sono il momento migliore per parlare con istituzioni, musei e curatori, ma vorremmo trovare il contesto e la città giusta per proporre il lavoro giusto.

Anche perché è più complesso entrare in contatto con voi senza uno spazio fisico dove potervi trovare.
Uno spazio fisico, verso fine anno, lo avremo, ma sarà più una casa-base, una sorta di ufficio dove faremo mostre più leggere, che potrà diventare un punto di riferimento per chi ci vuole venire a trovare.

Come scegliete gli artisti e in che modo vi rapportate con loro?
All’inizio eravamo concentrati solo sugli artisti italiani, poi ci siam resi conto che era limitante proprio per una questione di scambio. Rapportarci con altre realtà, Paesi e culture arricchisce sia noi che loro. Ci sono tantissimi artisti con cui siamo in contatto. In generale è tutto molto spontaneo e naturale: cerchiamo di creare relazioni personali profonde con radici solide, in modo tale da non dover nemmeno firmare un contratto. Si va all’antica: strette di mano e accordi. Come è già successo, se arrivano altre gallerie si valuta insieme se può essere una scelta buona o no per loro e per il progetto. Lavoriamo come squadra e parliamo di tutti questi aspetti con gli artisti. Per il Salone del Mobile di Milano ci è stato proposto da Dimorestudio di proporre un allestimento dei loro ambienti in fiera e noi abbiamo contattato tutte le gallerie amiche a Milano per presentare opere di artisti in cui crediamo. Una cosa bellissima da segnalare è che a tutte le mostre, i «nostri» artisti son sempre venuti, anche da Germania, Stati Uniti, Belgio...

Come vi confrontate con curatori e scrittori? Non avete ancora presentato cataloghi, ma i leaflet delle vostre mostre sono sempre strutturati e approfonditi.
Ci siamo sempre trovati a disagio con i fogli di sala che ti raccontano in maniera didascalica le opere, e abbiamo sempre cercato di favorire la fruizione di una mostra senza dover leggere troppo. Chi è interessato può tornare a casa e approfondire il lavoro attraverso i leaflet, che hanno l’obiettivo di aggiungere del materiale senza la pretesa di spiegare nulla, ma di produrre conoscenza intorno all’artista e alle sue tematiche. Il primo booklet nasce con la mostra di Francesco Tosini, dove tutti i contenuti testuali erano parte integrale del progetto e sono nati dopo un periodo in cui le quattro figure che avevamo individuato, un saggista, una poetessa, un curatore e un musicista/filosofo, si sono stimolati, incontrandosi e parlando con l’artista delle tematiche alla base della mostra. Il risultato sono stati quattro testi, l’uno molto differente dall’altro.

Sul vostro sito c’è anche una sezione «Essays», ma per ora è vuota. Che cosa avete in mente?
È un aspetto che abbiamo affrontato varie volte, ma non abbiamo ancora trovato un contenuto che potesse rappresentare il primo atto. È un contenitore libero dove possono essere inseriti contenuti di artisti che non lavorano con la galleria, ma anche musicisti, videomaker, saggisti, filosofi e qualsiasi figura autoriale possa contribuire alla nostra lettura del contemporaneo. Vorremmo diventasse una vetrina per altre figure con cui ci piace dialogare. Presto arriverà e non saranno solo contenuti testuali.

Come vi immaginate nel lungo periodo?
Speriamo che la galleria possa rimanere contemporanea, evolvere, cambiare pelle a seconda delle tematiche e delle esigenze degli artisti in quel momento.

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