Jenny Saville, «Fulcrum», 1999 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Collezione privata. Cortesia di Gagosian

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Jenny Saville, «Fulcrum», 1999 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Collezione privata. Cortesia di Gagosian

I nudi femminili di Saville tra i giganti del Rinascimento

«A Firenze, per questa mostra, ho intrapreso un viaggio emotivo durante il quale ho capito come accedere alla potente umanità di Michelangelo. Prima mi stava sempre dietro le spalle, ora è dentro di me»

Nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio il monumentale dipinto «Fulcrum» (1998-99) porta tre nudi femminili riversi nel Salone delle Battaglie, tra gli affreschi di Vasari, le «Fatiche di Ercole» di Vincenzo de’ Rossi e il «Genio della Vittoria» di Michelangelo. Al Museo dell’Opera del Duomo la Pietà Bandini del Buonarroti ha come compagno un disegno alto tre metri da cui trasudano i temi della violenza, della politica, dei contrasti etnici.

Sono due «stazioni» della mostra di Jenny Saville (Cambridge, 1970) aperta a Firenze sino al 20 febbraio 2022. È un progetto che coinvolge, oltre alle sedi storiche già citate, il Museo degli Innocenti e il Museo di Casa Buonarroti, ma l’epicentro è il Museo del Novecento, diretto da Sergio Risaliti, ideatore e curatore della mostra: qui è esposta una serie di dipinti e disegni, circa un centinaio di opere.

Nel loggiato esterno del museo è poi aperta una vetrina affacciata sulla piazza per rendere visibile sia di giorno sia di notte un dipinto di grande formato esposto sopra l’altare all’interno della ex Chiesa dello Spedale (il museo sorge nel complesso quattrocentesco), il ritratto monumentale «Rosetta II» (2000-06), una giovane donna non vedente conosciuta dall’artista e ritratta come un cantore cieco.

Il passante, sulla piazza sottostante, si troverà tra quello sguardo negato e il Crocifisso ligneo di Giotto al centro della navata di Santa Maria Novella, visibile anche dall’esterno quando il portale della basilica, di fronte al museo, si trova aperto. Dipinti e disegni degli anni Novanta e lavori realizzati appositamente per la mostra invadono la città e propongono altri confronti e assonanze con gli antichi maestri amati dall’artista britannica, da Luca della Robbia allo stesso Michelangelo.

Nelle sale di Casa Buonarroti, ad esempio, sono allestiti i disegni «Study for Pietà I» (2021) e «Mother and Child Study II» (2009): un dialogo aperto con «Madre con bambino (il celebre «cartonetto» michelangiolesco del 1525 ca). La mostra è promossa dal Comune di Firenze, organizzata da MUS.E e sostenuta dalla Gagosian Gallery. Cristiana Perrella, direttrice del Museo Pecci di Prato, ha incontrato l’artista durante l’allestimento.

Avevi 26 anni quando hai esposto a «Sensation!», la mostra che nel 1997 ha sancito il ricambio generazionale dell’arte britannica. I 44 artisti avevano pochissime cose in comune, ma tutti facevano arte audace. Sentivi di avere delle affinità con altri Young British Artists?
Ripensandoci oggi, è stato considerato un gruppo coeso, ma non ho frequentato la stessa scuola d’arte degli altri e all’epoca non erano il mio gruppo di amici, quindi non ero così legata a loro come potrebbe sembrare. Ma il linguaggio e lo spirito erano gli stessi, indipendentemente dai media con cui ciascuno lavorava. Avevamo ammirato l’arte internazionale della collezione Saatchi da giovani a Londra, quindi avere la possibilità di fare una mostra presso con lo stesso Charles Saatchi... ha cambiato tutto. La mia prima mostra a New York ha aperto la sera dopo l’inaugurazione di «Sensation!» al Brooklyn Museum, un lancio sulla scena artistica internazionale. È stato decisamente eccitante.

E nel 1992, a soli 21 anni, il tuo lavoro «Propped», che avevi realizzato per il diploma (alla Glasgow School of Art, Ndr), è finito sulla copertina del «Sunday Times Magazine». Come sei riuscita ad approdare a un lavoro così maturo nella primissima fase della tua carriera?
Sono stata fortunata perché ho ricevuto una solida formazione da mio zio che era un artista e uno storico dell’arte, quindi ero giovane quando ho scoperto Rembrandt. Andavamo ad Amsterdam per vederlo e abbiamo trascorso alcuni anni a Venezia ammirando Tiziano e Tintoretto. Venivamo spesso qui a Firenze...

Che cosa ti ha colpito di più di Firenze?
Ricordo la cappella di Masaccio. La «Cacciata dall’Eden» ha avuto un grande effetto su di me.

Anche la dimensione nel tuo lavoro è stato un aspetto determinante.
Ho un istinto per il grande formato e dopo aver visto Pollock e de Kooning a New York, oltre alle grandi pale d’altare a Venezia, volevo che i miei dipinti fossero valutati seriamente: sai, per le donne si usano spesso termini come «minuta», «gentile», «interessante»... Sono sempre stata una pittrice tradizionale ma quando sono andata a studiare in America ho preso consapevolezza del sistema patriarcale che dominava in quel settore. La maggior parte delle artiste che lavoravano intorno al femminismo facevano lavori concettuali, non dipinti. Io avevo questo profondo amore per la pittura, è il mio linguaggio. Dovevo provare a far lavorare questi due elementi insieme e questa battaglia interiore è diventata il mio lavoro, come in «Propped», per esempio.

In pittura si è parlato molto dello sguardo maschile. Che cos’è per te lo «sguardo femminile»? Esiste?
Questa è una domanda difficile, penso che lo stiamo ancora imparando. Sai che sei stata educata come una donna con una forte consapevolezza di essere oggetto di sguardi. Sei preparata a essere guardata. Ho cercato di incorporare questa accezione di «sguardo» nella nozione di sguardo in pittura. Non è un sistema univoco, è quasi un’idea cubista del modo di guardare di una donna. Penso che una donna in Afghanistan, una donna ad Harlem o in Africa sperimenti qualcosa di molto diverso rispetto a noi due sedute qui. Quindi non posso avere una «teoria femminile», è impossibile. E forse è anche pericoloso. Sto solo cercando di farmi strada nella mia posizione. Questo è tutto ciò che posso fare.

In che modo la fotografia influisce sulla tua pratica?
La fotografia digitale è importante nel mio lavoro. Ho scoperto che posso osservare più aspetti della vita attraverso l’uso della fotografia di quanto non potrei con una modella tradizionale che posa per me. Ad esempio, stavo lavorando con una modella il cui lavoro era il cucito. Quando posava, il piede si muoveva avanti e indietro, steso in avanti. Ho iniziato a scattare foto con la mia fotocamera digitale molto velocemente. Quando ho guardato le immagini mi sono accorta che ero riuscita a catturare le sue dita allungate in modo completamente animalesco; nessuno nella storia dell’arte ha mai dipinto un piede in questo modo perché non c’è modo attraverso il quale l’occhio umano possa catturare quelle informazioni e usarle in pittura.

Venendo alla mostra di Firenze, in qualche modo essa afferma l’ineluttabilità della storia dell’arte, l’attrazione e il potere del passato. In un periodo storico in cui il primato della tradizione occidentale è messo in discussione e smantellato, perché stai affrontando questo tema?
Ovviamente Michelangelo è un’icona della storia dell’arte occidentale. È un artista molto stimolante e non voglio negarlo. Questo progetto in particolare è stato un viaggio emotivo perché ho imparato da lui, ho capito come accedere a questa potente umanità, comprendendo come ci è riuscito e come ha usato tutti gli aspetti di una composizione umana. Negli ultimi due anni è stato il più grande insegnante. L’ho detto al curatore Sergio Risaliti: Michelangelo mi stava sempre alle spalle e adesso è sotto la mia pelle.

E come hai reagito ai diversi luoghi della mostra? Penso che sarebbe interessante parlare di «Fulcrum» installato in Palazzo Vecchio, che condivide lo stesso spazio con i dipinti che celebrano la storia fiorentina. Mi fa pensare alla giustapposizione del soldato e della donna nuda ne «La Tempesta» di Giorgione. Ancora una volta, il corpo femminile è messo in relazione con un’idea di passività mentre il corpo combattente è maschile.
Il motivo per cui ho messo «Fulcrum» lì è a causa del Covid-19. Quando stavamo facendo la selezione delle opere vedevo tante immagini molto grandi di persone che stavano morendo a causa del virus e mi sembrava che quel dipinto avesse improvvisamente una profondità diversa... Che questi enormi corpi fossero i più vulnerabili alla pestilenza. Questo era il motivo per avere «Fulcrum» lì, come una sorta di promemoria dell’era post Covid.

Gli ultimi due anni sono stati molto importanti per chi lavora sul corpo come te. Penso anche al movimento Black Lives Matter, che ha aggiunto un’altra dimensione al rapporto con il corpo, la rappresentazione, le immagini che abbiamo visto. Anche questo fa parte del tuo lavoro?
Tutto quello che succede attorno a me influenza il mio lavoro. Come l’Afghanistan adesso. Ero seduta nel mio studio due settimane fa e ho sentito la notizia che l’educazione femminile era stata sospesa. Penso a me stessa e alle altre donne che lavorano alla preparazione di questa mostra. Ho goduto della libertà di esprimere me stessa, quindi sento una profonda tristezza per quelle donne in Afghanistan che non possono realizzare i propri sogni. C’è un’opera nella mostra che si intitola «Exodus», che in realtà ho iniziato prima delle notizie sull’Afghanistan, che hanno reso il pezzo ancora più significativo per me. È una sorta di pietà con i corpi dei bambini ripresi da fotografie di guerra.

E parlando della «Madonna con Bambino», agli Innocenti esponi «The Mothers» che dialoga con la «Madonna col Bambino» di Leonardo. Entrambi sono in qualche modo incompiuti...
È un lavoro deliberatamente aperto. Quando ho lavorato sull’iconografia della «Madonna con Bambino», ho esaminato antichi miti in Sicilia e nell’antico Egitto e il lavoro è scaturito da questo. Se consideri un pittore come Leonardo, per quanto emozionante, la sua è una visione molto esterna di una madre e di un bambino. Mentre il mio sguardo parte dall’interno, in quanto madre e artista. Con le mie gravidanze, stavo in effetti partorendo e dipingendo carne allo stesso tempo.

Dopo Firenze che cosa ti aspetta?
Sto realizzando un progetto a Venezia di cui sono entusiasta. Ho ricevuto una commissione per un dipinto di 6-7 metri che non vedo l’ora di cominciare.

È il più grande che tu abbia mai fatto?
Sì, e voglio realizzare un dipinto che rappresenti il ​​nostro tempo.

Jenny Saville, «Fulcrum», 1999 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Collezione privata. Cortesia di Gagosian

Jenny Saville, «Rosetta II», 2005-06 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Collezione privata. Cortesia dell’artista e di Gagosian

Jenny Saville, «Study for Pentimenti III (sinopia)», 2011 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Foto Mike Bruce. Collezione privata. Cortesia dell’artista e di Gagosian

Jenny Saville, «Aleppo», 2017-18. © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Foto Lucy Dawkins. National Galleries of Scotland. Collezione dell’artista. Cortesia di Gagosian

Redazione GDA, 30 settembre 2021 | © Riproduzione riservata

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