«Zeche Hannover, Bochum-Hordel, Ruhr Region, Germany» (1973), di Bernd and Hilla Becher; New York, The Metropolitan Museum of Art, acquisizione, donazione di Vital Projects Fund Inc. attraverso Joyce and Robert Menschel, 2011. © Estate Bernd & Hilla Becher, rappresentato da Max Becher

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«Zeche Hannover, Bochum-Hordel, Ruhr Region, Germany» (1973), di Bernd and Hilla Becher; New York, The Metropolitan Museum of Art, acquisizione, donazione di Vital Projects Fund Inc. attraverso Joyce and Robert Menschel, 2011. © Estate Bernd & Hilla Becher, rappresentato da Max Becher

I Becher non erano fotografi, erano scultori anonimi

Allo SFMOMA una grande retrospettiva dei coniugi tedeschi: nei loro scatti avevano catalogato l’architettura della produzione capitalistica

«I Becher approcciavano la fotografia allo stesso modo in cui un botanico approccia la catalogazione di piante e animali», scriveva il critico irlandese Sean O’Hagan. Parole che alludono al rigore metodologico che caratterizza tutta quanta l’opera di Bernd e Hilla Becher (1931-2007; 1934-2015): fotografie in bianco e nero di edifici industriali in disuso o in decadimento, organizzate in sottoinsiemi o griglie geometriche altrimenti dette «tipologie». L’architettura della produzione capitalistica archiviata e catalogata; i suoi edifici come campioni naturalistici sottovetro, esemplari artificiali in via d’estinzione.

Dal 17 dicembre al 2 aprile il San Francisco Museum of Modern Art ospita, dopo la tappa al Met di New York, una grande retrospettiva dedicata al duo di artisti tedeschi che ridefinì il vocabolario formale della fotografia del secondo ’900. Un’avventura, quella dei Becher, avviata nel 1959, quando entrambi erano studenti presso la Kunstakademie di Düsseldorf. Bernd studiava pittura e tipografia, Hilla aveva una formazione da fotografa commerciale.

Dopo soli due anni, il matrimonio: un vincolo che sanciva una partnership profonda, sia nell’arte sia nella vita. I Becher si servivano di una fotocamera grande formato, simile a quelle usate dai fotografi ottocenteschi, come i fratelli Bisson o Carleton Watkins. Si affidavano esclusivamente a immagini in bianco e nero, ignorando deliberatamente la svolta verso la fotografia a colori a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

Eppure, a informare la loro opera vi era uno spirito nuovo, in linea con le contemporanee ricerche del Minimalismo e del Concettualismo. Gli edifici industriali immortalati dall’obiettivo costituivano, ai loro occhi, «sculture anonime»: le loro immagini erano ready-made duchampiani, rappresentazioni bidimensionali di «oggetti» trovati. Duecento i lavori in mostra a San Francisco, fra cui una selezione di materiali provenienti direttamente dall’archivio e dalla collezione personale dei due artisti.

«Zeche Hannover, Bochum-Hordel, Ruhr Region, Germany» (1973), di Bernd and Hilla Becher; New York, The Metropolitan Museum of Art, acquisizione, donazione di Vital Projects Fund Inc. attraverso Joyce and Robert Menschel, 2011. © Estate Bernd & Hilla Becher, rappresentato da Max Becher

Federico Florian, 15 dicembre 2022 | © Riproduzione riservata

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I Becher non erano fotografi, erano scultori anonimi | Federico Florian

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