Fazzini, scultore del vento
L’antologica al Museo Bilotti presenta 100 opere del maestro marchigiano

Fino al 2 luglio 100 opere di Pericle Fazzini riunite al Museo Bilotti racconteranno antologicamente, per la cura di Alessandro Masi (con Roberto Serra e Chiara Barbato), la parabola artistica dello «Scultore del vento». Questa definizione lirica dell’artista nato a Grottammare (Ap) nel 1913 e morto a Roma nel 1987, che dà il titolo alla presente mostra, fu coniata da Giuseppe Ungaretti, in una recensione apparsa su «Il Popolo» nel 1951. Essa si riferiva nello specifico all’opera «Ragazzo con gabbiani», inno al volo e alla leggerezza concepito e realizzato negli anni più foschi della storia umana, quelli della seconda guerra mondiale.
L’opera è tra le centrali di questa mostra, che si avvale della collaborazione della Fondazione e Archivio Pericle Fazzini di Roma. Ungaretti, l’artista marchigiano lo conobbe nei primi anni Trenta, quando, giunto a Roma, venne subito accolto dal mondo artistico e culturale della grande città. E il rapporto col poeta, che scrisse in varie occasioni su Fazzini, fino alla presentazione per la Biennale del 1954, dove vinse il Premio per la Scultura, è testimoniato in mostra anche da una versione bronzea del ritratto scolpito nel legno nel 1936.
Altre opere nodali in mostra sono «Uscita dall’Arca» del 1932, «Danza» del 1935, «Donna nella tempesta» del 1936, «Ritratto di Sibilla Aleramo» e «Il fucilato» del 1947, a cui si aggiungono opere degli anni Sessanta, fino all’apoteosi plastica della gigantesca «Resurrezione» bronzea, per la Sala Nervi in Vaticano, sede delle udienze papali: al Bilotti sono esposti i bozzetti.
Sono anni in cui Fazzini è omaggiato con grandi mostre in Europa e in Giappone, e in cui crea una «scuola fazziniana» all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove insegna dal 1958 al 1980. È l’epoca di maggior successo di un artista che aveva iniziato, bambino, a scolpire il legno nella bottega del padre falegname, artigiano povero dai molti figli. A riconoscerne il genio fu il poeta Mario Rivosecchi, che convinse il padre a rinunciare a un valido collaboratore in erba, e a lasciarlo andare a Roma.