Fabbricare mostre

Tomaso Radaelli, cofondatore di MondoMostre: «Finita l’emergenza, torneremo nei musei e alle mostre, perché siamo abituati alla bellezza»

Tomaso Radaelli
Arianna Antoniutti |

Roma. Tomaso Radaelli, romano, 56 anni, è presidente di MondoMostre, società leader nella progettazione e produzione di eventi espositivi. Creata nel 1999, MondoMostre esordisce con la mostra «Cento capolavori dall’Ermitage» alle Scuderie del Quirinale di Roma, destinata a chiudere con oltre 570mila visitatori. Nel 2015 nasce la joint venture MondoMostre Skira di cui Radaelli è amministratore delegato e Massimo Vitta Zelman presidente. Abbiamo chiesto a Radaelli bilanci e prospettive della sua società, in questi giorni così difficili.

Dottor Radaelli, lei è laureato in Economia e Commercio, con master in Business administration. Come avviene il passaggio al mondo della produzione di mostre?

Mi sono laureato a Roma e successivamente ho preso un Mba alla Columbia University. Tornato in Italia ho lavorato per McKinsey e ho conosciuto Leonardo Mondadori. Con lui è iniziata l’avventura nel mondo dell’arte che ho proseguito con il mio socio, Simone Todorow. Abbiamo deciso di diventare autonomi ed è stato un bel salto nel buio, ma ce l’abbiamo fatta.

Quanto le sue competenze in campo economico e finanziario guidano le sue scelte attuali?

Nel modo giusto, ovvero tenendo presente che oltre ai contenuti, che sono di competenza degli specialisti, serve un ottimo piano economico anche perché negli anni il nostro settore ha risentito, come tutti, della recessione. La nostra è una realtà che ha bisogno di molte competenze. A MondoMostre lavorano una trentina di persone, di estrazione estremamente varia: da economisti ad avvocati amministrativi; ma anche laureati in psicologia e filosofia, designer, professionisti delle pubbliche relazioni e in corporate identity e ovviamente storici dell’arte. Poi c’è il branch a Mosca e i nostri collaboratori stabili negli Stati Uniti, più i partner con cui lavoriamo in tutto il mondo in Messico, Cina, Giappone e Australasia.

Che cosa sentite di aver rinnovato, o innovato, in questo settore?

Forse l’aver tentato la strada, poi vincente, di coniugare il rigore scientifico con la divulgazione: realizzando esposizioni che soddisfano specialisti e grande pubblico, come quella del 2008, ormai storica, su Sebastiano del Piombo a Roma. E questo grazie al fatto che abbiamo da subito sviluppato la rete di contatti oltre confine, operando a stretto contatto con alcune delle più importanti istituzioni internazionali, dall’Ermitage di San Pietroburgo alla Gemäldegalerie di Berlino, dalla National Gallery di Londra al Metropolitan di New York.

Come si prepara il business plan di una mostra?

Sono business plan diversi per ogni mostra e per ogni luogo in cui la si realizza, sia in Italia che all’estero, perché cambiano gli interessi del pubblico, ovvero la sensibilità culturale del Paese. Caravaggio a Tokyo nel 2016 ha mostrato i soggetti più delicati e meno religiosi dell’artista. In America attualmente l’input dei musei è «No More Dead White Men»... Si cerca la diversità anche nell’arte, lì sono all’avanguardia del sentire. In Cina si chiede il racconto, e di conseguenza progetti più didattici. Per questo motivo non è detto che una mostra che ha dato ottimi risultati in un luogo possa ottenere i medesimi in un altro.

Quali sono state le vostre mostre di maggior successo e quali, invece, non hanno incontrato il favore sperato?

Sicuramente, assieme all’Azienda Palaexpo, il «Caravaggio» alle Scuderie del Quirinale nel 2010, che ebbe un successo di pubblico impressionante con 600mila visitatori, un dato che forse non vedremo più per una mostra romana. «Hokusai» a Palazzo Reale di Milano nel 2017 fece quasi 200mila visitatori, nel 2016 il progetto su «Michelangelo» in Giappone 300mila. Infine cito la mostra milanese del 2018 «Dentro Caravaggio» che credo sia stata premiata dal pubblico per l’uso della tecnologia che ha permesso di raccontare le indagini diagnostiche, effettuate sui dipinti del maestro, in modo innovativo: furono oltre 400mila i visitatori. Alcune rassegne espositive, in alcuni casi, possono aver registrato un numero inferiore di visitatori rispetto alle attese, magari anche per eventi contingenti. Può capitare quando, coraggiosamente, si vogliono presentare per la prima volta grandi artisti, celebri in altri Paesi e meno in Italia. Ma anche in questi casi il coraggio può premiare: la citata mostra su Sebastiano del Piombo, un progetto eroico, fece 135mila visitatori. In quell’occasione l’allestimento fu realizzato da Luca Ronconi, e fu per noi un privilegio poter lavorare con lui: sapeva immaginare gli spazi in maniera straordinaria.

Far conoscere l’arte italiana all’estero è parte essenziale della vostra missione aziendale?

Assolutamente sì. E molti direttori di musei italiani più di una volta si sono espressi pubblicamente in questo senso. Consideri poi un altro dato: portare le nostre opere all’estero ha ricadute benefiche anche in Italia, per esempio nel 2011 l’Anno della Cultura italiana in Russia ha portato un incremento dell’afflusso turistico verso l’Italia del 30%. Creare solide relazioni con partner internazionali corrisponde a uno dei nostri obiettivi primari. Lavoriamo con istituzioni pubbliche, come ad esempio il Ministero della Cultura giapponese che abbiamo affiancato per le iniziative dell’Anno della Cultura giapponese in Italia; lo stesso per il Ministero della Cultura della Federazione russa. Il Ministero della Cultura messicano ci ha chiesto di aiutarli in occasione della Biennale di Venezia di quattro anni fa. Per poter presentare in Italia o all’estero le più importanti collezioni dei musei statunitensi, così come realizzare progetti con le maggiori istituzioni asiatiche, è indispensabile costruire e mantenere una solida rete di relazioni internazionali con tutte quelle realtà. Tali partnership divengono durature una volta percepita la serietà con cui operiamo. E vogliamo allargare ulteriormente gli orizzonti con nuove proposte e raggiungendo nuovi pubblici anche nei Paesi in cui siamo già presenti.

Come si riesce a far convivere qualità e grandi numeri?

Il caso della mostra di Georges de La Tour a Palazzo Reale a Milano (aperta nel mese di febbraio e ora sospesa a causa dell’emergenza sanitaria; Ndr) è significativo. Dagli studiosi viene unanimemente considerato uno dei più grandi pittori del Seicento, insieme a Caravaggio e a Rembrandt, eppure non si è mai riusciti a fare una sua esposizione in Italia. In mostra abbiamo ora prestiti molto complessi in arrivo da tre diversi continenti, certamente un progetto di grande qualità che speriamo possa essere apprezzato da un gran numero di visitatori.

L’edutainment che spazio occupa nella vostra programmazione?

Parecchio. E non c’è bisogno di scomodare i lemmi moderni. Già gli antichi dicevano che si impara meglio se ci si diverte («docere delectando»). Basta che le due cose siano in equilibrio, che una non sovrasti l’altra.

In media a quale livello percentuale e con quali criteri viene stabilito il vostro margine di contribuzione minimo oppure ottimale?

In qualche modo una mostra assomiglia a un film: si produce e si investe «pesantemente», sperando che poi il pubblico arrivi, quindi il rischio è molto alto per il produttore (e non ci sono contributi statali…). Per questo, una mostra deve avere inizialmente come obiettivo minimo un 50% di margine di contribuzione. Se invece il rischio non è a carico nostro o è mitigato, e quindi almeno in parte veniamo remunerati, allora siamo sul 20%.

Quali sono le componenti principali del rapporto costo-ricavi di una mostra?

Per i costi sicuramente al primo posto l’acquisizione dei contenuti (trasporti, assicurazioni, curatela, loan fees, le tariffe richieste per i prestiti) per circa il 50%; produzione (personale, allestimento) 20%; comunicazione 20%. I ricavi purtroppo sono all’80% da biglietteria, solo il 15% da bookshop e merchandising e il 5% da sponsor e serate.

In media a quale livello di spettatori paganti si colloca il break-even point di una mostra?

Per noi circa 100mila visitatori paganti.

Come vengono prestabiliti i contributi esterni (sponsor ecc.) per realizzare l’equilibrio economico e finanziario di una mostra?

Drammaticamente inesistenti. Un tempo rappresentavano il 30% dei ricavi.

In che misura è determinante l’investimento in comunicazione e quanto incide sul budget?

È molto importante, in particolare se costruito con anticipo. Oggi i nuovi media permettono di fare comunicazione mirata, one-to-one, spendendo relativamente poco. Abbiamo fidelizzato una clientela che curiamo con il nostro Customer Relationship Management, e sappiamo che tra il 15 e il 25% delle vendite arriva prima ancora dell’evento, il che ci permette di pianificare. Detto questo, non esiste nessuna ricetta magica per le mostre: è il passaparola che determina il successo, ben oltre il nostro investimento pubblicitario.

Nel 2015 nasce la joint venture MondoMostre Skira. Quali sono, rispettivamente, ambiti e suddivisioni di compiti?

È nata per gestire congiuntamente, ottimizzandone produzione e potenziale, una serie di grandi progetti, dell’uno e dell’altro socio, come ad esempio la mostra di Palazzo Reale dedicata a La Tour, o negli scorsi anni Arcimboldo a Palazzo Barberini o ancora Frida Kahlo al Palazzo Ducale di Genova.

Qual è una mostra di cui va particolarmente fiero?

Sono tante. Nel recente passato forse Caravaggio a Mosca nel 2011: anche con una temperatura molto rigida, circa -25°, le code fuori dal Museo Pushkin erano chilometriche. In corso, anche se sospesa, senza dubbio La Tour a Milano.

Una «mostra impossibile» che sogna di realizzare?

Rembrandt. È stato poco visto in Italia ma ha avuto un impatto enorme, peraltro anche sulla cultura contemporanea.

Che cosa pensa della tendenza di mostre immersive e digitali?

Credo che il digitale sia utilissimo nelle mostre di carattere archeologico: poter ricostruire pezzi mancanti di edifici, o statue, rende la fruizione decisamente migliore. Poi certo se ne fa, e se ne è fatto, un uso a volte inutile. Oggi se ne vedono meno, forse perché alla fine non hanno conquistato il pubblico, che è più esigente di quanto si pensi.

E che cosa pensa dei cosiddetti direttori manager dei musei?

Tutto il bene possibile. Hanno ancora un grande limite, ovvero un’autonomia che è tale per certe cose ma non vale per altre, tipo la scelta del personale.

A Roma quale le sembra il luogo istituzionale maggiormente in grado di produrre proposte culturali e mostre di buon livello? MaXXI, Gnam, Macro, Palazzo delle Esposizioni...

Sono tutte sedi che avrebbero un grande potenziale, oltre a queste ce ne sono anche altre, ma se si continua a non fare sistema difficilmente si potranno produrre grandi cose. La capitale d’Italia non solo deve tutelare il suo straordinario passato, ma deve rappresentare il volano culturale del Paese, presentare nuove sedi e nuovi progetti espositivi, confermandosi tra le capitali culturali a livello mondiale.

Più in generale, come le appare la situazione attuale in Italia in tema di produzione culturale?

Mi pare rappresentativa del Paese: da una parte grandi eccellenze, dall’altra progetti meno interessanti. Ma penso anche che l’Italia, quando esprime il suo meglio, sia capace di una qualità unica al mondo per quella creatività, profondità e professionalità che tutti ci riconoscono.

Che cosa sta accadendo nel mondo dell’arte e della cultura al tempo del Coronavirus? Quali saranno i tempi e i modi della ripresa?

La cultura ha sempre interpretato le grandi difficoltà dell’umanità, io credo sarà così anche questa volta. Adesso è dura, il nostro è un mondo fragile, ma siamo anche abituati a cadere e rialzarci. Mi rendo conto che molte persone avranno pesanti ricadute economiche, ma credo che il nostro settore sia compatto e solidale e le prime misure di supporto che vediamo dal Ministero vanno nella direzione giusta. Sul domani noi, come tanti altri, ci siamo attivati per offrire, tramite i canali social, l’opportunità di godere comunque dell’arte e della bellezza. Credo che, finita l’emergenza, moltissime persone si recheranno nei cinema, nei musei, nei teatri e alle mostre in giro per l’Italia, perché siamo abituati (e da sempre) alla bellezza. Io rimango un inguaribile ottimista.

© Riproduzione riservata Un immagine della mostra «Raffaello e la poesia del volto» al Museo Pushkin State Museum of Fine Art sdi Mosca
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