Una veduta della mostra «Theaster Gates: A Clay Sermon» nella Whitechapel Gallery di Londra nel 2021. Cortesia dell’artista e Whitechapel Gallery, Londra. Foto Theo Christelis

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Una veduta della mostra «Theaster Gates: A Clay Sermon» nella Whitechapel Gallery di Londra nel 2021. Cortesia dell’artista e Whitechapel Gallery, Londra. Foto Theo Christelis

Due temi per Theaster Gates al New Museum

La mostra newyorkese dell’artista afroamericano è incentrata sul lutto come «motore creativo» e sulla riformulazione del concetto di museo

Theaster Gates, classe 1973, è fra gli artisti viventi più celebrati nella scena dell’arte americana e internazionale. Muovendosi in modo fluido tra media artistici disparati, da progetti di social practice alla performance, dalla ceramica all’installazione, il suo lavoro esplora l’identità afroamericana in relazione agli oggetti e all’ambiente costruito. In occasione della sua grande antologica presso il New Museum di New York, dal titolo «Young Lords and Their Traces» (dal 10 novembre al 5 febbraio), abbiamo intervistato il curatore Massimiliano Gioni.

«Young Lords and Their Traces» reimmagina la funzione del museo in quanto «spazio per storie personali e adunanze spirituali», come recita il testo della mostra. Come si articola in concreto questo progetto?

Tutta l’opera di Gates si concentra da sempre sulla preservazione di oggetti (o di interi edifici): si potrebbe dire che Gates è sia un artista sia un collezionista, e non solo di oggetti ma di intere collezioni. La sua personale al New Museum combina sia opere d’arte realizzate da lui (dipinti, sculture e installazioni) sia oggetti che ha collezionato negli anni o che gli sono stati regalati. E così al centro dell’esposizione si trova l’archivio Robert Bird, esperto di cinema russo e dell’opera di Andrej Tarkovskij in particolare, o si incontrano strane reliquie e piccoli oggetti appartenuti a figure quali Agnes Martin, Sam Gilliam, bell hooks, Okwui Enwezor...

È una specie di museo personale o un piccolo pantheon che Gates ha assemblato in questa mostra: una sorta di museo dentro il museo. Così facendo Gates ci invita a riflettere sulla funzione dei musei, sul tipo di storia e storie che le istituzioni scrivono e preservano, e sulla necessità di immaginare nuovi musei e nuove forme di ricordo e preservazione, che possano reinventare una storia dell’arte e della cultura nella quale si mescolano memorie personali e collettive.


Come ha dichiarato lo stesso Gates, questa mostra nasce dall’esperienza del lutto e della perdita. In particolare, la scomparsa di due persone particolarmente care all’artista: il curatore Okwui Enwezor e la scrittrice afroamericana bell hooks. In che modo il lutto e la sofferenza informano il processo creativo di Gates? E come tale sensibilità si riflette nella mostra al New Museum?

Più volte l’artista ha spiegato che nei momenti di lutto l’umanità è capace di creare opere e azioni di straordinaria forza poetica e anche rivoluzionaria: pensiamo a ciò che è accaduto nel mondo in seguito all’omicidio di George Floyd nel 2020. La storia dell’arte afroamericana, ma anche la storia dell’arte universale, è legata in maniera intima alla perdita: il filosofo Régis Debray diceva che tutta la scultura in fondo nasce come arte funeraria, come il tentativo di ristabilire la verticalità della figura davanti all’orizzontalità della morte...

E in fondo la storia delle immagini è la storia del tentativo di supplire a un’assenza, a una perdita quindi. Gates è sempre stato molto attento a questi problemi e il suo lavoro in ceramica, in particolare, dimostra una profonda fascinazione con l’uso dei vasi come recipienti per il cibo ma anche come urne funerarie: la ceramica dopotutto è un oggetto che abbraccia l’intero ciclo della vita e che trasforma il fango, la terra, l’informe in forma. Per non parlare poi di tradizioni più specifiche come il blues, un genere musicale intimamente legato al trauma dell’esilio e della schiavitù e di altre perdite e lutti. Sono tutti elementi che hanno un ruolo fondamentale nell’opera di Gates.


Si tratta di un artista conosciuto soprattutto per le sue azioni nell’ambito della social practice, specialmente a Chicago, dove è nato e cresciuto. Per uno dei suoi progetti più famosi, «The Dorchester Project», ha acquistato vecchi edifici fatiscenti di South Side Chicago per poi restaurarli e trasformarli in istituzioni culturali. Ma anche gli oggetti, per ricollegarmi alla risposta precedente, rivestono un’importanza fondamentale per l’artista. Li ha più volte definiti «tracce», entità materiali in grado di racchiudere mitologie, storie personali e collettive. Ci può dire qualcosa in più degli oggetti presenti in mostra?

Gli oggetti sono molti e diversi: da una piccola campana di bronzo appartenuta a bell hooks agli stivali coperti di pittura di Sam Gilliam. Per poi passare ai libri di Robert Bird o agli strumenti che il padre di Gates usava per riparare i tetti... E poi molti altri oggetti che raccontano di storie private e collettive. Fra questi, i documenti che ricordano la storia degli Young Lords, un gruppo di attivisti di Chicago degli anni Sessanta.

Una veduta della mostra «Theaster Gates: A Clay Sermon» nella Whitechapel Gallery di Londra nel 2021. Cortesia dell’artista e Whitechapel Gallery, Londra. Foto Theo Christelis

Federico Florian, 08 novembre 2022 | © Riproduzione riservata

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