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Distruggete, ricostruiremo

Robert Bevan

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Come è meglio rispondere quando i monumenti storici sono colpiti dagli estremisti? Oggi le tecnologie digitali consentono la ricostruzione fedele, manca però il contributo fondamentale del fattore umano e si rischia di cancellare le tracce delle violenze vandaliche

Dopo la distruzione nel 2001 dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, da parte dei talebani, è stata presa una decisione. Le gigantesche statue di pietra sono state a tal punto polverizzate dagli esplosivi che l’Unesco ha riconosciuto l’impossibilità di ricostruirle utilizzando il materiale originale. Era meglio lasciare vuote le nicchie delle statue a testimonianza del vandalismo inflitto al Patrimonio dell’Umanità. 

Non c’era nulla di strano in questo. Le decisioni dell’Unesco sono state guidate per molto tempo dalla Carta internazionale sulla conservazione e il restauro dei monumenti e dei siti (la Carta di Venezia del 1964), redatta da esperti della conservazione del patrimonio, gli stessi che fondarono anche l’Icomos (International Council on Monuments and Sites), l’ente di consulenza dell’Unesco in materia di patrimonio. Ai sensi della Carta, nei siti è consentito unicamente il «riassemblaggio di parti esistenti ma smembrate» (anastilosi), essendo la ricostruzione l’equivalente di un falso (alla stregua di un parco a tema). 

Il bisogno di autenticità è divenuto in seguito una questione centrale nella presa in conto di potenziali siti Patrimonio dell’Umanità. Tuttavia, dolcemente ma in modo costante, questo accordo dei conservatori sulla centralità dell’autenticità si è andato attenuando. Al Ponte di Mostar è stato assegnato lo status di Patrimonio dell’Umanità nel 2005 dopo che la campata distrutta nel 1993 durante la guerra bosniaca era stata sostituita con un facsimile costruito con pietre nuove. Allo stesso modo sono stati ricostruiti anche i vandalizzati templi di fango di Timbuctù. Il prossimo sarà la ziggurat di Nimrud? 

Il deliberato accanimento contro il patrimonio culturale, che si trattasse degli estremisti durante le guerre nell’ex Jugoslavia degli anni ’90, o dell’Isis in Siria e in Iraq, è stato un elemento di spinta per questo cambiamento; l’accresciuta capacità di ricostruire i monumenti con strumenti digitali ne è stato un altro. La ricostruzione da parte dell’Institute for Digital Archaeology (Ida) di un arco di trionfo di Palmira in scala ridotta, innalzato a Londra in Trafalgar Square, e successivamente nella Hall Plaza di New York City e dal 25 marzo ad Arona sul Lago Maggiore, ha ricevuto l’approvazione tanto degli specialisti quanto dei media più diffusi. Che cosa fare con la ricostruzione dopo i disastri bellici o naturali, come i terremoti e le alluvioni, è ora una questione oggetto di dibattito interno in seno alle organizzazioni internazionali che si occupano di patrimonio culturale. In che modo eviteranno di creare dei monumenti zombi risuscitati senza che godano di una reale vita propria?

Una carta non scritta da architetti Francesco Bandarin, direttore generale aggiunto dell’Unesco per la cultura, mette in discussione l’approccio tradizionale alla ricostruzione e all’autenticità. «La Carta di Venezia venne scritta da storici dell’arte, non da architetti, dice. Si basava su un concetto tipicamente europeo molto rigido, un’idea italiana del XX secolo. Ecco perché non funziona mai con l’architettura, e dobbiamo reinterpretarlo. I principi relativi al patrimonio sono in continua evoluzione». 

Un’anteprima di questo processo di revisione si è vista qualche tempo fa. Nel 1994, dopo le estese distruzioni di monumenti durante la guerra bosniaca, nel corso di una conferenza internazionale in Giappone, venne redatto il Documento di Nara sull’Autenticità. Il documento richiedeva il riconoscimento delle differenze di atteggiamento culturale nei confronti della ricostruzione e l’adeguamento ai desideri e alle esigenze delle comunità locali. Pratiche orientali, come la ricostruzione rituale dei templi scintoisti in Giappone, fornirono parte dello slancio che portò all’accordo, ma furono anche una risposta alla distorsione di autenticità nei progetti di ricostruzione di ispirazione nazionalista. «Le distruzioni deliberate hanno creato un nuovo contesto, dice Bandarin. A quell’epoca, quello di Bamiyan era un caso eccezionale». Lo scorso anno, il tema della ricostruzione è stato discusso all’Unesco e all’Icomos, alimentato dagli eventi in Siria e in Iraq. Alcuni esperti hanno suggerito di introdurre un’utile distinzione tra le «città vive», dove sono richieste risposte flessibili alla ricostruzione, e i luoghi privi di «comunità o abitanti», come i siti archeologici. «È una svolta interessante, osserva, ma non è del tutto una novità per i professionisti della conservazione occuparsi delle comunità tanto quanto delle pietre». Sottolinea la crescita recente del settore del patrimonio culturale immateriale (tradizioni, lingue e forme d’arte, per esempio), che accompagnano la cultura materiale. 

Per alcuni, tuttavia, l’eccessiva fretta di «restaurare» monumenti distrutti da soggetti come l’Isis si sta dimostrando problematica. Nel 2016, Maamoun Abdulkarim, il direttore generale delle antichità siriane, dichiarò che i siti distrutti nel corso della lunga guerra civile nel Paese sarebbero stati ricostruiti. Dopo che il Governo siriano e le forze russe ripresero il controllo di Palmira, la dichiarazione di «pieno sostegno» al restauro della città da parte della direttrice generale dell’Unesco Irina Bokova provocò una reazione internazionale negativa che trovò forma nella petizione del gruppo attivista online Avaaz. La petizione descriveva questo progetto come «frettoloso, inopportuno e di parte» e sosteneva che, in effetti, era «celebrativo del regime siriano e dei successi militari russi». Secondo Bandarin ci sarebbe pochissima precisione in gran parte della terminologia. «Questo è un tema che ha goduto di troppa attenzione, dice. C’è un fraintendimento del termine “ricostruzione” ... È soltanto una delle tecniche di restauro». Da allora l’Unesco ha sostenuto che verrà effettuata una articolata valutazione tecnica dei danni ai siti Patrimonio dell’Umanità come Palmira prima di prendere ulteriori decisioni.

Resuscitare un cadavere Ma questa apertura alla ricostruzione segna una trasformazione profonda e le critiche alla Carta di Venezia perché «scritta da storici dell’arte, non da architetti» non tiene conto del fatto che il suo comitato fondatore comprendeva numerosi esperti con formazione architettonica, come il suo primo estensore Piero Gazzola, oltre che archeologi. E le richieste della Carta (per esempio, che tutte le nuove opere debbano essere reversibili) non si limitavano certo agli storici dell’arte o ai restauratori. 

La Carta di Venezia aveva un precedente nella Carta di Atene del 1931 per il Restauro dei Monumenti Storici e, prima ancora, nei principi fondatori di organizzazioni del XIX secolo come la Society for the Protection of Ancient Buildings. Ancora prima (nel 1849), il critico d’arte inglese John Ruskin scriveva: «È impossibile, tanto impossibile quanto resuscitare un cadavere, restaurare qualcosa che sia stato un tempo grande o bello in architettura». Una differenza chiave tra allora e oggi è che le tecnologie del XXI secolo, come la scansione laser e la stampa 3D, sembrano rendere non più problematiche le ricostruzioni fedeli. Roger Michel, direttore dell’Ida, ha difeso il suo favore per le copie 3D, citando il vecchio adagio dell’accetta del nonno: il cimelio di famiglia è sempre la stessa accetta anche se nel tempo sono state sostituite sia la testa che l’impugnatura. Questa non è altro che una variante del paradosso di Plutarco, tra altri, che si chiese se la nave di Teseo sarebbe rimasta lo stesso oggetto se il suo scafo fosse stato sostituito pezzo per pezzo. La potenza del digitale ha fatto sì che il paradosso abbia cessato di essere astratto per diventare sempre più reale. L’Ida sostiene di «realizzare restauri meticolosi e attenti agli aspetti culturali di oggetti e architetture distrutti da conflitti o da catastrofi naturali». Ma è sempre possibile? Richard Hughes, un esperto di conservazione presso lo studio internazionale di ingegneria Arup, aveva partecipato al restauro della cittadella di Aleppo prima dello scoppio della guerra. Hughes ha descritto la «replica» di Palmira dell’Ida come «assolutamente straordinaria in termini di autenticità», ed è davvero entusiasta della capacità del digitale di catturare grandi quantità di dati che possono dirci, per esempio, come un edificio sia crollato in un terremoto e come possa essere rimesso insieme. Hughes ha istituito l’Icomos-UK Digital Technology Committee, che ha circa 60 membri. «Ma, aggiunge, che la tecnologia aiuti nella ricerca dell’autenticità è discutibile. C’è una grande differenza tra un modello matematico e la realtà». Manca ancora qualcosa a quanto viene prodotto dalle macchine, ed è «la persona che tocca la pietra».

La mano dell’artigiano «Un artigiano, come un artista, può adeguare la sua opera a quella di un collega di mille anni fa, dice Hughes. Capendo come lavorava sulle fragilità di un blocco di pietra, per esempio. Qui c’è un linguaggio che non è il linguaggio tecnologico. Sulla superficie di una pietra voglio vedere l’anima, l’odore, le infezioni biologiche. È questo che contribuisce al fascino, all’atmosfera, allo spirito di un luogo». Alla richiesta di citare una ricostruzione a scala naturale veramente riuscita di un monumento realizzata grazie all’impiego di tecniche digitali, non è in grado di farlo. «Sono state impiegate per realizzare oggetti nei musei, come copie di manoscritti, ma non ho mai visto qualcosa delle dimensioni di un intero edificio». 

Anche se copie accurate di edifici o monumenti saranno presto possibili, saremo in condizione di provarci in assenza di materiale originale e autentico? La ricostruzione è un’esigenza naturale dopo un disastro ma, anche al di là delle questioni di autenticità, la memoria storica può essere distorta dall’atto stesso della ricostruzione, in modi che possono far dimenticare il trauma originale invece di metterlo in evidenza. Il vuoto lasciato dalla bombardata Frauenkirche di Dresda rappresentò per decenni un simbolo della follia della guerra, ora quasi offuscato dopo che è stato ricreato un facsimile della chiesa. Sebbene alcune pietre riutilizzate rechino ancora le cicatrici dei danni dell’incendio, la chiesa ricostruita, a dispetto del suo messaggio di riconciliazione, sta diventando un punto di riferimento per gruppi tedeschi di estrema destra e per la loro nazionalistica idea del vittimismo. 

Una terza via di ricostruzione critica, quella di incorporare elementi danneggiati a memoria di ciò che avvenne nel passato, presenta una maggiore integrità. Bandarin concorda sul fatto che la rimodellazione a strati sovrapposti delle rovine del Neues Museum di Berlino a opera di David Chipperfield è «un paradigma totale» di questo approccio. La ricostruzione del Neues si colloca correttamente nell’arco di autenticità che copre il periodo da Ruskin alla Carta di Venezia. «L’approccio deve essere pluralista, e le comunità locali devono essere ascoltate», insiste Bandarin. Questo focus sulle persone invece che sui mattoni e la calce è illustrato nel programma operativo da 25 milioni di dollari approvato in ottobre dal consiglio esecutivo dell’Unesco, per mettere a punto una nuova strategia per «la protezione della cultura e la promozione del pluralismo culturale in casi di conflitto armato». Il budget è ripartito tra attività quali il miglioramento del monitoraggio dei disastri, lo sviluppo di recuperi incentrati sulla comunità, i progetti educativi e volti ad assicurare una continuità culturale alle popolazioni trasferite. Viene anche data nuova enfasi nel collegamento tra patrimonio, diritti umani e aiuti umanitari. Karima Bennoune, la corrispondente speciale dell’Onu per i diritti culturali, ha presentato un rapporto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che enfatizza come la sfida per la protezione del patrimonio culturale non può essere affrontata senza avere prima compreso la necessità di proteggere la popolazione e i diritti umani. Scrive: «Non dobbiamo soltanto preoccuparci della distruzione del patrimonio, ma anche della distruzione delle vite umane. Le due cose sono interconnesse. In particolare, ciò significa consultare la gente che ha particolari collegamenti col patrimonio quando si cerca di determinare se desiderino effettivamente riedificare tale patrimonio, e in tal caso, come e quando».

Nel contesto di decisioni incentrate sulle comunità, è probabile diventi più necessaria che mai una chiara politica di conservazione che salvaguardi l’autenticità. Tuttavia al momento si fa confusione: l’Unesco è intervenuta nel 2013, in tema di autenticità, per fermare la ricostruzione di un piede di un Buddha di Bamiyan da parte di esperti dell’Icomos tedeschi (cfr. n. 338, gen. ’4, p. 5); ma ha recentemente prestato il proprio logo a una mostra a Roma di copie a stampa 3D di sculture distrutte dall’Isis (cfr. n. 368, ott. ’16, p. 28). 

Le autorità siriane, intanto, hanno fatto un passo indietro rispetto alle richieste avanzate per la ricostruzione di Palmira, in attesa dei risultati di ulteriori indagini. «Non inizieremo ad aggiungere pietre moderne», ha detto Maamoun Abdulkarim al «Sunday Times». Resta da vedere se la linea dell’Unesco sui Buddha di Bamiyan subirà variazioni a seguito delle richieste locali. Il Ministero afgano della Cultura e il governatore della regione di Bamiyan vogliono che almeno una delle due statue venga ricostruita. Pensano al turismo del futuro, ma anche al fatto che una mancata ricostruzione rappresenterebbe una vittoria per i talebani. Dopo tutto, la ricostruzione del centro storico di Varsavia dopo la seconda guerra mondiale può essere vista come un legittimo atto di resistenza ai tentativi nazisti di sradicare la cultura slava. La causa della distruzione dovrebbe forse diventare un fattore chiave nelle decisioni di ricostruzione, che si tratti di città «vive» o siti archeologici «morti». L’autenticità potrebbe, in casi di distruzioni deliberate, diventare una preoccupazione meno centrale rispetto all’opposizione alla «pulizia culturale» e alla volontà di convincere gli iconoclasti dell’inutilità delle loro azioni. Ma questo non significa necessariamente che la Varsavia o la Mostar ricostruite debbano diventare siti Patrimonio dell’Umanità (come sono oggi). Quando ritornerà la pace (non si può che augurarselo), sarà necessario prendere decisioni su Aleppo, su Nimrud e su innumerevoli altri luoghi. In un’epoca di deliberate distruzioni e di cambiamenti tecnologici c’è bisogno, più che mai, di un coerente inquadramento politico che riconosca l’importanza dell’autenticità nella corretta gestione della ricostruzione, anche se, in alcuni casi, solo per metterla coscientemente da parte.

Robert Bevan, 03 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

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