«How Many Languages» (2019) di Babi Badalov

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«How Many Languages» (2019) di Babi Badalov

Diciamo quasi la stessa cosa

A Kunst Meran la poesia della traduzione applicata alle arti visive

Alla poesia della traduzione, «The poetry of translation», è dedicata fino al 13 febbraio la nuova mostra collettiva di Kunst Meran Merano Arte, la prima curata da Judith Waldmann, responsabile delle mostre d’arte nominata un anno fa.

Le abbiamo chiesto le ragioni della scelta di questo tema.
«È un tema, risponde, strettamente legato alla realtà dell’Alto Adige con il multilinguismo e la convivenza interetnica che lo caratterizzano. L’ho inteso come un’opportunità per avvicinarsi con sensibilità alle dinamiche locali e per affrontare questioni ad esse connesse. Cosa significa avere tre lingue ufficiali? Quali opportunità e quali sfide sono associate al multilinguismo? Quali possibilità vengono aperte dalla traduzione e quali sono invece i suoi limiti? La mostra guarda alla traduzione sia in qualità di fonte di creatività e poesia, sia come causa di incomprensioni ed esclusioni. Si tratta di una tematica che ha un enorme potenziale e una rilevanza internazionale».


Siamo abituati ad associare la traduzione a testi letterari: come si declina nelle opere visive?
Qualsiasi traduzione ha un denominatore comune: un contenuto è trasferito da un sistema di segni a un altro con un processo che ha qualcosa di magico. La traduzione si amplia in mostra dalla forma linguistica a quella del linguaggio visivo. Ad esempio nel lavoro dei Kinkaleri, un collettivo italiano, la poesia è tradotta in danza assegnando a ogni lettera dell’alfabeto un gesto, un movimento.

Jorel Heid e Alexandra Griess traducono la danza in sequenze luminose attraverso luci al neon programmate e dimmerabili che restituiscono la coreografia di sette minuti di Véronique Langlott. Il suono dell’opera è generato dal crepitio dei neon creando un’esperienza sensoriale molto toccante. Con questi lavori ci troviamo di fronte a codici che, al pari di una lingua straniera, non possono essere decifrati direttamente. Più entra in gioco l’astrazione, maggiormente emerge l’aspetto poetico della traduzione che riguarda la comprensione e la decodificazione, ma comprende anche fantasia, associazione, interpretazione.


Quali artisti sono stati scelti e di quali momenti storici?
Il fulcro è nelle ricerche contemporanee, con artisti come Slavs and Tatars che si confrontano con tematiche legate alla lingua e al multilinguismo, o come il gallese Cerith Wyn Evans, cresciuto multilingue: il suo lampadario veneziano traduce il codice Morse in segnali luminosi. L’artista anglo-libanese Lawrence Abu Hamdan, vincitore di un Turner Prize, espone un lavoro relativo a casi legali in cui errori di traduzione o di pronuncia sono al centro del processo giudiziario. Vedere per la prima volta insieme queste opere eccezionali per me è un sogno che si realizza.

Due sono poi gli excursus storici: nella prima sala le lingue artificiali, l’esperanto e il linguaggio internazionale per immagini isotype, raccontano il desiderio di un mondo antinazionale e senza traduzioni. Una seconda sala si confronta con la poesia visiva e concreta degli anni ’60 e ’70, dando spazio a un gruppo di artiste riunite da Mirella Bentivoglio in occasione della mostra Materializzazione del Linguaggio organizzata durante la Biennale di Venezia del 1978 che ha dato spazio alla traduzione del linguaggio in forme visive. Il percorso è completato da due opere di arte pubblica realizzate da Lawrence Weiner e Heinz Gappmayr all’ospedale di Merano.

«How Many Languages» (2019) di Babi Badalov

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Camilla Bertoni, 22 dicembre 2021 | © Riproduzione riservata

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Diciamo quasi la stessa cosa | Camilla Bertoni

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