Il ponte delle tette a Venezia

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Il ponte delle tette a Venezia

Dal Ponte delle tette alla Chiesa delle Convertite

LA LAGUNA RACCONTA | Toponomastica del mestiere più antico del mondo a Venezia

Federica Spadotto

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Per lunghissimo tempo Venezia è stata tutt’altro rispetto a come la consideriamo ai nostri giorni, ovvero la città degli innamorati. Meta di soggiorni romantici per coppie di ogni età e luogo, sede di matrimoni immortalati in uno scenario d’impareggiabile suggestione, fatto di calli e canali su cui scivolano gondole abituate ad ascoltare parole d’amore in ogni lingua del mondo, rappresenta, suo malgrado, un simbolo dell’immaginario collettivo, una gigantesca metafora del sentimento.

Suo malgrado (vale la pena di ripeterlo) perché l’appeal della città, a prescindere dalle bellezze architettoniche e dalla fisionomia urbana del tutto eccezionale, nacque e si consolidò nei secoli attraverso pratiche e attività molto lontane, e per molti versi contrapposte, alle promesse d’amore eterno.

Al posto delle citate coppiette cosmopolite si aggirava, tra campi e campielli, una gran quantità di uomini, sia locali sia stranieri, alla ricerca di sollazzo e intrattenimento sessuale elargito da professioniste gestite da matrone e ubicate in precisi quartieri della città. All’uopo giungeva uno «stradario» di assoluto rispetto, che aiutava a orientarsi nel dedalo di ponti, fondamenta e relativi canali per giungere ai luoghi di piacere.

Il senso pratico dei veneziani aveva adottato una toponomastica legata alla funzione o specificità dei singoli spazi urbani come accade, ad esempio, per il Ponte dei sospiri, su cui passavano i carcerati per giungere alle Prigioni; oppure il Ponte dei pugni, sede deputata alle periodiche zuffe tra Castellani e Nicolotti. Lo stesso meccanismo vale per il Ponte delle tette, sito tra il sestiere di Santa Croce a San Polo, che, con le omonime fondamenta e dintorni costituiva una sorta di quartiere a luci rosse stile Amsterdam, dove al posto delle ammiccanti ragazze in vetrina altrettanto ammiccanti fanciulle si affacciavano alla finestra mostrando il petto completamente nudo ai probabili avventori.

Ubicato a meno di duecento metri sorgeva, inoltre, un vero e proprio complesso di «case chiuse», denominate Carampane (che prende il nome dalla famiglia patrizia dei Rampani, cui originariamente appartenevano) e gestite da tenutarie, in modo da poter localizzare e soprattutto circoscrivere un fenomeno dilagante. I lauti guadagni e la quantità crescente di ragazze disponibili in ogni parte della città dilatavano, infatti, il fenomeno ben oltre i quartieri deputati, come ci tramanda Andrea Michieli all’aprirsi del XVI secolo:

Parmi Vinegia esser fatta un bordello
poiché girar non posso in alcun lato
ch’io non sia con voce o con spunto chiamato
da qualche ladra dietro al bel cancello

In quell'epoca le prostitute a Venezia erano più di 11mila e si dividevano in due categorie (pressoché come oggi): quelle a buon mercato e le cosiddette cortigiane, omologhe alle escort, che intrattenevano nobiluomini e dignitari. Le prime vestivano con camicioni da uomo e, per quanto avvenenti, erano trascurate nella cura della persona; le altre apparivano in tutto e per tutto delle nobildonne, al punto che la critica ancora oggi non è riuscita a dirimere il dubbio sull’identità dell’effigiata nel «Ritratto di giovane veneziana» eseguito da Albrecht Dürer (Norimberga, 1471-1528) durante il soggiorno in Laguna nel 1505, dibattendosi tra un’aristocratica o una meretrice d’alto bordo.

A fronte dell’ingente numero di fanciulle dai facili costumi, la Serenissima si trovò costretta a regolamentarne le uscite dagli alloggi e i luoghi in cui potevano esercitare, deliberando in una legge promulgata dal Senato il 30 marzo 1490 tramite il Magistrato alla Sanità, che

tutte le pubbliche meretrici dovessero andare ad abitare (quindi lavorare) in luoghi pubblici.

Anche in questo frangente la toponomastica veneziana ci viene in aiuto, pur in senso inverso rispetto al postulato di partenza. Se, infatti, avevamo esordito dicendo che la funzione dei luoghi gli attribuisce il nome, nel caso che andremo a illustrare è il luogo stesso ad adattarsi allo scopo, e proprio grazie alla legge.

Costeggiando il nostro famigerato ponte ci troviamo nelle Fondamenta de la stua (stufa), che deve la denominazione alla presenza di piccoli locali adibiti alla cura della persona, ovvero bagni caldi o rudimentali saune realizzate mediante il riscaldamento di una stanza priva di finestre, cui seguivano pedicure e massaggi. In siffatti ambienti dedicati al relax era abbastanza scontato, nello scenario di cui sopra, s’insinuasse ben altro tipo d’intrattenimento, che proprio in virtù dell'essere svolto in luogo pubblico, la stufa appunto, trovava il sigillo dell’autorità.

Le medesime autorità, oltre a legiferare in merito, non mancavano di gestire come potevano la fitta schiera di meretrici veneziane, obbligandole a versare una tassa in favore di una struttura correttiva istituita presso il convento annesso alla Chiesa delle Convertite, che si occupava delle «colleghe» redente.

Il complesso religioso, sull’isola della Giudecca, ospitava nel XVII secolo svariate centinaia di donne che avevano abbandonato il mestiere più vecchio del mondo ravvedendosi (di qui il nome della chiesa) a una vita morigerata, ovvero finalizzata a maritarsi o diventare monache. Poiché la quantità di peccatrici eccedeva di gran lunga la capienza del convento, veniva operata una selezione in base a un criterio prettamente estetico, come riferisce Giovan Battista Rossetti nel Forastiere illuminato (1740):

«In questo luogo vengono ricevute quelle Donne peccatrici, le quali bramando emendare daddovero la loro vita licenziosa, e disonesta, cercano di ritirarsi dal Mondo, ed avere un sicuro ricovero. Elleno sono d’ordinario al numero di 300, in circa, non essendo ammesse tutte universalmente, ma solo quelle, che per loro beltà ed avvenenza si temono in pericolo di ricadere ne’ vizi».

Alle altre, le meno desiderabili, invece, rimanevano ben poche alternative, cosicché la gran parte di esse praticava «il mestiere» sino alla vecchiaia, che sarebbe trascorsa poco lontano da dove tutto era iniziato, al Rio Terà de le Carampane nel sestiere di San Polo, sede di ospizi per prostitute a fine carriera. Da questo triste epilogo deriva il termine «carampana», ancora usato per riferirsi ad una donna vecchia e sciatta.

Nell’esiguo fazzoletto urbano che abbiamo idealmente percorso prende forma una Venezia sotterranea, esclusa dalla storiografia istituzionale e dal circuito artistico, senza volto né voce, che tuttavia ammicca per raccontarci i suoi segreti attraverso il vocabolario del piacere, scritto a caratteri capitali sui muri di case e palazzi.


LA LAGUNA RACCONTA
Per una toponomastica del mestiere più antico del mondo a Venezia
La villeggiatura nella campagna veneta tra sogno e status symbol

Il ponte delle tette a Venezia

Albrecht Dürer, «Ritratto di giovane veneziana», Vienna, Kunsthistorisches Museum

Gianantonio Guardi, «Le Convertite alla Giudecca», Lugano, Fondazione Gabriele e Anna Braglia

Federica Spadotto, 18 giugno 2020 | © Riproduzione riservata

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