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Con o senza ali

Giovanni Pellinghelli del Monticello

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Le peripezie della Vittoria Alata di Calvatone

Fino al 6 marzo nel Museo archeologico di Cremona la mostra «1937. La Vittoria Alata e le celebrazioni Stradivariane» ripercorre la complessa vicenda della Vittoria Alata di Calvatone, scultura in bronzo dorato del II secolo d.C. che si leva in volo sul globo terracqueo e che, grazie all’iscrizione dedicatoria a Marco Aurelio e Lucio Vero, è databile fra il 161 e il 169 d.C. Rinvenuta nel 1836 a Calvatone (Cr), esposta a Brera nel maggio 1837, nel 1841 fu acquistata dal re di Prussia Federico Guglielmo IV che la donò all’Altes Museum di Berlino. 

Durante la II guerra mondiale, la Vittoria Alata di Calvatone venne chiusa nei caveaux della Zecca di Stato insieme ad altri celebri bronzi (come risulta dagli archivi del Museo di Berlino). Tuttavia le vicende belliche fecero sì che, nell’estate del 1945, l’Armata Rossa confiscasse oltre un milione e mezzo di opere (fra cui alcune delle sculture bronzee conservate nella Zecca) ai musei di Berlino, Dresda, Lipsia e altre città tedesche portandole in Unione Sovietica come bottino di guerra. Gran parte di quelle opere fu restituita dall’Urss alla Germania Orientale nel 1958, mentre di altre si sono perse le tracce. Fra queste la Vittoria alata.

Tre sono le ipotesi sulla sorte della statua: che non sia mai stata trasferita in Russia perché già distrutta dai bombardamenti a Berlino, come altre opere dell’Altes Museum; che l’originale sia stato trafugato da altri e che possa anche riapparire nel futuro, come accade ripetutamente per opere d’arte soggette alle razzie naziste; che l’originale sia stato trasferito in Russia nel 1945 e volutamente non restituito nel 1958. In questo caso, è verosimile che la Vittoria Alata sia tuttora esposta al Museo Puškin come «calco».

Nel 1970 circolò l’immagine di una sala del Museo Puškin con al centro, unico pezzo esposto, la Vittoria Alata di Calvatone attorniata da una vera folla di visitatori, attenzione sia espositiva sia di pubblico esagerata per una semplice copia. Da allora le autorità italiane tempestarono gli omologhi sovietici per ottenerne delucidazioni e restituzione. Stereotipata risposta fu che di copia ottocentesca si trattava, di cui tuttavia nei registri prussiani (ipso facto inappuntabili) non si trova traccia. Perciò, oggi tutto induce a collocare l’originale della Vittoria Alata di Calvatone al Museo Puškin.

Inoltre, nel gennaio 2015 emerge da archivi privati l’acquerello allegato alla documentazione di vendita al Re di Prussia che dimostra che la statua scoperta nel 1836 era sì Vittoria ma non alata: una Nike Aptera. Da qui un nuovo interrogativo, verosimile e coerente con i restauri «integrativi» ottocenteschi: da chi e quando furono aggiunte le ali? Dall’acquerello del 1836 sembrerebbe che a Milano la Vittoria rimanesse Aptera, d’altra parte negli archivi dell’Altes Museum di Berlino non c’è traccia di tale integrazione. Una curiosa coincidenza geografica induce a preferire un’aggiunta «padana» negli anni fra scoperta nel 1836 e vendita alla Prussia nel 1841. 

Vicenda analoga subì infatti la Vittoria Alata di Brescia di cui, nell’occasione del restauro per la mostra del 2003, si scoprì non solo non essere un’opera romana bensì un originale ellenistico del 250 a.C. rappresentante Afrodite e portato a Roma dall’Egitto nel 29 a.C. per volontà di Ottaviano ma che pure era stata modificata nella struttura con l’aggiunta, di molto posteriore, delle ali. Gli studi e il restauro inducono a dare per certo che da Roma la statua, ancora Afrodite, sia stata inviata a Brescia dopo la vittoria nel 69 d.C. di Vespasiano su Vitellio proprio a Calvatone, venendo trasformata in Vittoria Alata a celebrazione del primo Augusto della Casa dei Flavii.

Giovanni Pellinghelli del Monticello, 13 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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