Carlo Maratta e i maratteschi

Si deve ad Alessandro Agresti il primo regesto dell’opera di un principe della pittura europea fra ’600 e ’700, con precise distinzioni per la pleiade di allievi e seguaci

«Rebecca ed Eliezer» di Carlo Maratti, Indianapolis, Indianapolis Museum of Art
Anna Lo Bianco |

Per parlare del libro di Alessandro Agresti su Carlo Maratti (Camerano, 1625-Roma, 1713) direi di cominciare dalla fine: da quell’inaspettato ma attesissimo, regesto in cui sono enumerate le opere autografe e non dell’artista, suddivise topograficamente in un elenco corposo e dettagliatissimo.

Viene alla mente l’articolo davvero precursore di Amalia Mezzetti del 1955 su Maratti che riportava, in un primo antesignano studio, la lista dei dipinti. Per molto tempo è stato forse l’unico punto di riferimento per gli studi sul pittore. Confrontando i due testi si ha la dimensione del lavoro vasto e capillare compiuto da Agresti che ha individuato oltre 250 opere, delle quali quasi sempre indica anche le misure, in un utilissimo compendio che sarà consultato da tutti gli studiosi dell’argomento, costituendo da ora in poi un punto fermo.

Da tutto il volume emerge una conoscenza profonda, coltivata negli anni attraverso un metodo in cui filologia e connoisseurship si fondono pienamente, con grandi risultati per la ricerca. Alle visite ai musei, alle chiese, alle collezioni, l’autore unisce la frequentazione delle gallerie antiquarie, delle aste, sempre aggiornato e sempre in grado di approfondire le proprie ricerche.

Va subito precisato che non si tratta di una monografia, intesa secondo schemi consueti con una sequenza che dalla biografia del pittore, esamina la produzione cronologicamente suddivisa, per terminare con le schede delle opere. Lo studio di Agresti potremmo definirlo tematico: individua alcuni argomenti chiave per la produzione di Maratti e li affronta allargando l’orizzonte sempre di più, fino a confronti anche azzardati ma convincenti, attribuzioni nuove e aggiornate, fino al nodo indistricabile per molti, del rapporto con gli allievi e più genericamente seguaci.

Come per Pietro da Cortona esistono i cortoneschi, così per il grande Maratti esistono i maratteschi. Sono entrambi protagonisti che riescono a interpretare e riassumere le coordinate culturali di un universo di idee nel quale riconosciamo un mondo e un’epoca. Anche qui una infinità di nomi, che l’autore individua e mette in relazione per i debiti o le differenze con il maestro. Di ognuno dei tanti maratteschi individua e mette a fuoco un carattere che lo distingue e lo allontana dalla grazia assoluta di Maratti.

Ma giustamente l’autore riconosce in Maratti anche un carattere che va al di là della grazia e del classicismo, di quel ruolo di nuovo Raffaello, così evocato dalla biografia di Bellori. Ne individua il sottile riferimento a Bernini, che lo porta alla progettazione della scultura e a quel ciclo grandioso degli Apostoli Barberini, dalla maestosità statuaria. Maratti guarda a Bernini e anche a Pietro da Cortona dai quali media l’incontro con il Barocco, che poi riequilibra e reinterpreta nelle sue composizioni.

Il libro inizia con un capitolo su alcuni soggetti, definiti «genealogie dell’immagine», codificati fino a divenire prototipi assoluti anche attraverso quell’abile «strategia di autopromozione» che Agresti gli riconosce e che accompagna quasi sempre il successo di un artista. Ecco allora i confronti con gli allievi, anche quelli meno sondati che all’interno di uno stesso tema risultano chiarificatori. Agresti si sofferma anche su personalità trascurate come quella di Pietro de Pietri, di cui coglie la maniera «trasognata e vibrante», o Niccolò Berrettoni, all’opposto, riconoscibile per le sue figure robuste e contrastate.

Ci aiuta nella lettura un corredo fotografico davvero ampio e soprattutto efficace che costituisce l’indispensabile completamento del testo, in una sequenza di immagini anche inedite o comunque poco note. Il volume affronta poi la grande produzione religiosa pubblica, spesso dedicata alle canonizzazioni, che offrivano occasioni uniche di lavoro per i pittori. Ricorda poi uno dei più complessi e grandiosi impegni ufficiali dell’artista, la Cappella della Presentazione in Vaticano, tangibile esempio di fusione tra lessico barocco, addomesticato, e classicismo.

In questa visione ad ampio raggio trovano posto anche i paragrafi sulla ritrattistica nella quale Agresti propone revisioni interessanti e su quella che appare un’attività secondaria di Maratti: la pittura di genere e il paesaggio, ovvero le figure dipinte all’interno del paesaggio, che spesso era anche un modo di produrre velocemente e con buoni guadagni.

Conclude il volume una bibliografia vastissima e molto utile per ogni tipo di approfondimento; e poi l’indice dei nomi, che a ogni libro aggiunge serietà e completezza, una vera marcia in più.

Carlo Maratti. Eredità ed evoluzioni del classicismo romano,
di Alessandro Agresti, 256 pp., ill.,  De Luca, Roma 2022, € 40

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