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Brera non Brera

In 30 anni la grande idea di Russoli ridotta a slogan

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Flaminio Gualdoni

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Qualche anno fa Pierre Bayard scrisse un libro divertente, Comment parler des lieux où l’on n’a pas été?. Torna in mente ora perché vengo travolto da una nuova raffica di annunci tra i quali quello che, tanto per cambiare, hanno modificato ancora una volta destinazione all’Accademia di Brera, allungando ulteriormente la lista dei posti dove non sono stato e, probabilmente, mai andrò. 

Dopo aver triturato per anni gli organi riproduttivi di tutti con la faccenda che il destino braidense era la caserma Mascheroni, oplà, ecco una nuova caserma, la XXIV Maggio. Sono, ridendo e scherzando, più di trent’anni che varco il portone di via Brera, sempre lo stesso, solido e rassicurante, ma in realtà vado da un’altra parte, in una forma di bizzarro nomadismo in surplace. Manca spazio per Pinacoteca e Accademia insieme: non è più possibile che Brera stia a Brera. Me lo son sempre sentito dire e ho finito per prenderlo come una formula portafortuna: sinché ci sarà qualcuno che la pronunci, niente si muoverà. 

La questione l’aveva posta con forza, e sapendo cosa diceva, il leggendario soprintendente Franco Russoli già nel 1974, tanto che già nel 1972 aveva convinto le autorità ad acquisire il vicino Palazzo Citterio progettando un primo ampliamento di spazi. Poi purtroppo è morto nel 1977, e da allora la sua idea di «Grande Brera» l’hanno ridotta a slogan e raccontata in cento modi diversi, con venature da molto bottegaie a molto elettorali. Nel frattempo, per dire, Palazzo Citterio è ancora lì, accompagnato invece dal singolare mantra portasfiga per cui è una vita che «l’anno prossimo apre».

Dopo Russoli, negli anni l’Accademia si è spostata in un sacco di posti suggestivi. Sono stato alla vecchia fabbrica Ansaldo, poi negli uffici abbandonati della Dalmine che stanno dirimpetto a Brera, poi alla Bicocca, poi nell’area dismessa della Falck a Sesto San Giovanni dal cui risanamento hanno fatto scappare anche Renzo Piano. Certo, entravo sempre dallo stesso portone, ma che cale? Era bello farsi un sacco di viaggi così, con la mente, qua e là nella nuova Milano postindustriale.

Poi è arrivato Rutelli. Che mi era anche simpatico con quell’aria sana e manageriale. Mi piace ricordarlo così, che annuncia al colto e all’inclita con piglio decisionista: «Il primo obiettivo del 2008: trasferire Brera in caserma», perché «vogliamo risolvere finalmente un punto dolente della cultura italiana». Cosa meglio della fatidica caserma Magenta Carroccio di via Mascheroni? Mi era pure un po’ famigliare, perché ci avevo fatto la visita di leva. Quando Rutelli l’ha detto, i militari, è vero, non lo sapevano ancora che ce l’avrebbero dovuta concedere, ma son quisquilie.

Due anni dopo il trio ministeriale delle meraviglie Bondi Gelmini e La Russa, in compagnia del mitico commissario straordinario Resca, assevera, oh se assevera.  

Magari si scordano di dirti che nel frattempo son lì a ragionare su come spostare dalla Mascheroni quattro chilometri di scaffali degli archivi dei militi, il che significa ristrutturare altri pezzi di caserme per poter ristrutturare questi per poter ristrutturare quelli di Brera. Per la gioiosa macchina da guerra tutto si può fare, soprattutto se si evita accuratamente di annunciare con quali soldi si faranno le cose. Bondi, che sogna il «Louvre italiano», è affezionato all’idea di una Fondazione, che però muore il giorno stesso della conferenza stampa d’annuncio. Che vuoi che sia? Intanto, Palazzo Cusani l’anno prossimo apre.

Nel frattempo, adeguatamente invecchiato, ho capito che l’amore tra me e il portone di Brera si era trasformato in una di quelle solide consuetudini d’affetto che fanno durare i matrimoni tutta una vita, e mi son messo tranquillo. È vero, ogni tanto tocca prendere il tram per andare in un posto chiamato pomposamente Brera 2 proprio come nella serie di Rambo: infatti è una vendetta del fantasma di Hayez, un pezzo di un istituto tecnico di quelli tutti vetro e alluminio dall’architettura che grida vendetta, utilizzato «provvisoriamente» a partire dall’inizio del secolo nuovo. Ma è roba provvisoria, appunto, düra minga.

Quando già ero lì che non ci pensavo più e mi godevo il fatto che in pinacoteca è arrivato uno simpatico e bravo come Bradburne che ha subito spazzato via l’allestimento delirante del Mantegna e, vero rivoluzionario, ha persino messo delle panchine in cortile (a una certa età, queste cose si apprezzano) ecco il coup de théâtre. Si parte si parte. Solo che macché via Mascheroni, era tutto un trucco, adesso l’Accademia è destinata alla caserma XXIV Maggio, new entry di questa stralunata mappa mentale: e chissà se i soldati stavolta li hanno avvertiti. In ogni caso a Brera i lavori procedono spediti, ché l’anno prossimo si inaugura il Palazzo Citterio. Dicono che vogliono fare anche un ristorante e un bar, dentro Brera. In effetti gli otto che ci sono nel raggio di cinquanta metri dal palazzo (cinquanta metri davvero, no per dire) sono un po’ pochini per le masse gaudenti.

Uno magari prosaico tende a chiedersi: ma i soldi per far tutto questo? Nessuna preoccupazione. Le idee chiare son come la salute, quando ci sono quelle il resto è una quisquilia. Io, di mio, son già qui che conto quante caserme ed ex fabbriche mi mancano a completare il giro di Milano, altro che Pokémon Go.

Flaminio Gualdoni, 09 dicembre 2016 | © Riproduzione riservata

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