Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Aspettando i barbari (ci sono ancora?)

Uno schema curatoriale didascalico, divulgativo e troppo vasto nella mostra centrale, artisti con il fiato corto o fuori forma, giovani che, allevati come polli in batteria, si rivelano esangui epigoni e una diffusa «retromania» appesantiscono, anche nei padiglioni, una Biennale sotto tono. Più che un’edizione di transizione sembra lo specchio di una crisi creativa globale

Image

Franco Fanelli

Leggi i suoi articoli

Gli allenatori di calcio lo sanno bene: lo schema, 4-4-2, 3-5-2 o 4-2-3-1 che sia, deve essere adatto ai giocatori che scegli. L’impressione è che l’applicazione dello schema a tutto campo scelto da Christine Macel, curatrice della 57ma edizione della Mostra Internazionale di Arti Visive della Biennale di Venezia non sia adatto agli artisti convocati. I temi dei nove capitoli o «transpadiglioni» della mostra centrale, forse imprudentemente intitolata «Viva Arte Viva», sono tracciati su una griglia a maglie troppo larghe perché gli artisti scelti da un’esperta storica dell’arte e curatrice come la Macel (forse più storica che curatrice, forse più adatta alla gestione e alla programmazione di un museo che al dinamismo richiesto da una mostra internazionale d’arte contemporanea) potessero «coprirli»: questo, soprattutto, a causa un’imbarazzante carenza di inventiva, energia e di forza espressiva.
 
Alla genericità dei titoli di tante biennali sparse per il mondo, la Macel ha aggiunto quella degli argomenti trattati, più da Expo che da Biennale di Venezia: l’intento era quello di dare il massimo spazio agli artisti. Il risultato, dopo il taglio politico imposto dal suo predecessore Okwui Enwezor, è un ritorno all’enumerazione enciclopedica proposta da Massimiliano Gioni nel 2013, ma in forma ridotta ed eccessivamente incline a un’esposizione divulgativa e didascalica. Soprattutto, sono venuti meno gli artisti. Non ha funzionato il mix di outsider, mid-career da riscoprire, defunti da rivalutare e qualche star. Queste ultime sono apparse fuori forma e imbolsite (vedi Sam Gilliam, Parreno, Orozco, Neto) o narcisisticamente adagiati nel loro essere socialmente utili (Eliasson) oppure si sono espresse in tono minore (Anri Sala) o stucchevolmente decorativo (Petrit Halilaj). Quanto agli outsider e ai mid-career, si è capito perché siano rimasti tra coloro che son sospesi tra fallimento e maturazione professionale. Gli artisti scomparsi famosi non hanno aggiunto nulla di nuovo (Franz West) o sono stati rappresentati da opere orribili (John Latham), quelli meno celebri sono già talmente inflazionati che la loro presenza non ha fatto che appesantire un percorso sin troppo compassato.


Non mancano, beninteso, opere preziose (Hajra Waheed), piccole rivelazioni e necessarie riproposizioni (Tibor Hajas). Ma troppe opere denunciano la loro tarda età e, come ha dichiarato la curatrice, nonostante una cinquantina (su 120 artisti) siano recentissime, in questo contesto o forse per loro intrinseca debolezza appaiono vecchie e spente. Alla Macel dobbiamo riconoscere di avere riportato il numero di artisti a dimensioni più normali rispetto alle affollatissime recenti edizioni della Biennale e, come nei suoi intenti, di aver dato a loro e alle loro opere lo spazio necessario. Chissà che non dobbiamo assegnarle un altro merito: che la sua selezione sia stata un tentativo di turnover (103 artisti espongono per la prima volta alla Biennale) effettuato nella lucida coscienza di un generale appiattimento e di una omologazione nella produzione artistica del presente, alla ricerca di qualche nome non scontato. È come se la scarsa verve che di questi tempi contrassegna la creatività dell’arte contemporanea l’avesse spinta ad affidarsi alle «seconde linee» e a qualche giovane anziché a una ipotetica squadra «titolare», salvo poi prendere atto che i titolari non lo erano diventati a caso. 


D’altra parte, la debolezza della mostra centrale ha il suo inequivocabile corrispettivo nel panorama offerto dai Padiglioni nazionali, soprattutto ai Giardini. Sin troppi i richiami a un rassicurante passato; troppo scoperta la strategia commerciale che ha dettato, se non imposto, le scelte nei padiglioni francese, britannico e statunitense. Rari i padiglioni da ricordare: si salvano quello greco, con la labirintica narrazione di una temuta «contaminazione» densa di riferimenti a un presente fatto di migrazioni e osmosi, quello australiano (ma grazie alla consolidata affidabilità di Tracey Moffatt), il rumeno (ma è stata necessaria una tardiva retrospettiva di Geta Bratescu), l’uruguaiano (con Mario Sagradini, colpevolmente snobbato da chi pretende lo spettacolo a ogni costo), l’ansiogeno spazio creato dalla brasiliana Cinthia Marcelle e il Padiglione tedesco: questi ultimi opportunamente premiati. Per le rappresentative nazionali, meglio quanto mostrato all’Arsenale, dove si fanno preferire la Turchia, la Georgia, l’Estonia, la Nuova Zelanda, il Messico, la Cina e le Filippine, mentre avremmo volentieri fatto a meno, tra gli altri, di quelli maltese (una specie di polveroso negozio di souvenir da aeroporto), macedone o dell’orripilante quanto monumentalmente kitsch scultura dell’argentina Claudia Fontes.


La Biennale, salvo rare eccezioni, riflette ovunque la desolazione del panorama creativo di oggi ed è difficile pensare a quali opere ricorderemo. C’è chi parla di un’edizione di transizione se non di svolta verso un luminoso futuro in cui gli artisti torneranno finalmente al potere, come vuole la Macel, dopo la lunghissima dittatura dei curatori. Una visione quanto meno ottimistica: non si esce indenni, neanche se si è artisti o sciamani (categoria tornata di moda), da quasi trent’anni di mercato a ritmi parossistici, di assurdi ritmi di produzione, di proliferazioni di biennali, di ossessiva ricerca del consenso del pubblico e dei grandi numeri a ogni costo. Gli artisti oggi giovani sono nati e si sono formati in questo ambiente intossicato: che cosa possono produrre di diverso? Allevati come polli in batteria, selezionati in base a «incroci» sempre più spietati pur di ottenere la razza che meglio risponda ai criteri di uniformità imposti dal pedigree, sono esemplari indeboliti ed esangui utili, nel migliore dei casi, a proporsi come manierati e stravaganti epigoni. In questo clima di stagnazione, impietosamente rappresentato a Venezia anche in alcune mostre-monstre che fanno da corona a una Biennale afflitta da quella che il critico musicale Simon Reynolds in un suo saggio definisce «retromania», in questa situazione da «aspettando i barbari» che possano portare aria e idee nuove, c’è persino da dubitare che i barbari, nel globalismo imperante, da qualche parte esistano ancora. 


Così il visitatore stanco si ritrova, un po’ sconsolato, in cima a una scalinata nel Padiglione Italia, a cercare contemplazione e consolazione nell’opera di Giorgio Andreotta Calò, quella che gli ha consigliato l’amico giornalista esperto di biennali. In alto, nella penombra, vede una sequenza di capriate; in basso il loro riflesso in uno specchio d’acqua. In mezzo, sospetta, il nulla.

Franco Fanelli, 02 giugno 2017 | © Riproduzione riservata

Aspettando i barbari (ci sono ancora?) | Franco Fanelli

Aspettando i barbari (ci sono ancora?) | Franco Fanelli