Illustrazione Katherine Hardy

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Arte & investimenti: il rischio di «fare a pezzi» Warhol e Picasso

Con l’acquisto in multiproprietà di un’opera si rende più accessibile il mercato. Ma la finanziarizzazione del collezionismo non è priva di rischi e l’offerta è molto maggiore degli acquirenti

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Elena Correggia

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Il recente annuncio da parte della società Artex (fondata dall’ex banchiere Yassir Benjelloun-Touimi e dal principe Venceslao del Liechtenstein) di aprire una borsa azionaria regolamentata per l’arte, per la quale ha già ottenuto la licenza, accende più che mai i riflettori sull’arte intesa come investimento. L’intenzione è quella di quotare entro la prima metà dell’anno la prima opera d’arte che sarà detenuta da una società le cui azioni saranno ammesse alla negoziazione su Artex attraverso un’offerta pubblica iniziale.

Successivamente un mercato secondario dovrebbe favorire la formazione di prezzi in tempo reale e quindi lo scambio delle «azioni artistiche». Un sistema che, secondo alcuni, potrebbe incrementare la trasparenza e la liquidità degli investimenti frazionari in arte, formula promossa da varie piattaforme negli ultimi anni, ma ora in fase di stallo.

Fra le società oggi più attive nel settore c’è Masterworks, che ha un portafoglio di 129 dipinti (soprattutto di artisti blue-chip dell’arte moderna e contemporanea) per un valore complessivo di 469 milioni di dollari. Lo schema base prevede l’offerta della comproprietà di un’opera tramite la suddivisione in quote («fractional ownership»). L’investimento è gestito dalla società con l’obiettivo di rivendere l’opera sul mercato nel medio-lungo periodo, per ottenere una plusvalenza che vada a remunerare gli investitori-proprietari.

«La proprietà frazionata di un quadro rende più democratico il mercato perché consente l’accesso al mercato anche a persone che non potrebbero permettersi di acquistare un’opera da 5 milioni di dollari. Tuttavia è nella mancanza di liquidità che si annidano attualmente i rischi maggiori. Se infatti l’entrata è stata facilitata, rimane incertezza su come e quando gli investitori potranno uscire da questi investimenti», commenta Anders Petterson, fondatore e amministratore delegato di ArtTactic, società di analisi del mercato dell’arte che produce report periodici sulla fractional ownership.

Di norma la quota di ingresso richiesta è intorno ai 10mila dollari, con una prospettiva di immobilizzazione per almeno 3-5 anni, a cui si accompagna la mancanza di garanzie sui ritorni da parte del soggetto gestore della piattaforma. Secondo il collezionista e proprietario di hedge fund Sir Paul Ruddock, l’equivalente finanziario più vicino a un fondo d’arte è il private equity, che non è liquido fino alla fine dell’investimento.

Se nel private equity il processo di gestione viene però supervisionato e controllato da numerosi esperti, comitati di valutazione e di rischio, bisogna avere la consapevolezza che qui invece si è vincolati alle scelte fatte dal fondo stesso,che deciderà sul prezzo da pagare per un’opera, sul come, a chi e quando venderla. Ciò non significa che l’investitore non possa uscire prima dal suo investimento, ma lo farà a suo rischio e pericolo.

Il report pubblicato lo scorso agosto da ArtTactic rivela che per quanto riguarda le quote delle opere offerte da Masterworks il mercato secondario degli scambi fra investitori è ristretto e non permette al momento di trarre considerazioni generali se non il fatto che il numero di offerenti è molto più elevato di quello degli acquirenti.

«In Italia il collezionismo più tradizionale non dimostra particolare interesse per questi investimenti, nei quali le considerazioni finanziarie prevalgono senz’altro su quelle artistiche e autoriali, dichiara Cristina Riboni, partner dello studio legale CBM&Partners di Milano. Poiché molte società che propongono l’acquisto di quote d’arte sono fuori dal mercato europeo, in prevalenza inglesi e statunitensi, è bene tenere presente anche la complessità nella disciplina legale di eventuali controversie e i costi collegati».

La diffusione dell’arte frazionata è stata in parte accelerata dalla possibilità offerta da alcune piattaforme di registrare e scambiare le quote tramite token su una blockchain. Un fenomeno che ha però amplificato le incertezze normative e i rischi connessi all’utilizzo delle criptovalute. «Se per esempio il mio portafoglio digitale di quote viene cancellato per sbaglio devo mettere in conto le spese legali da sostenere per una diffida che possono incidere sulla convenienza dell’investimento stesso, aggiunge Riboni. Da un punto di vista fiscale, poi, non vi è certezza su come si debbano dichiarare gli eventuali profitti ottenuti con gli investimenti frazionati, in quanto i regolamenti e le circolari dell’Agenzia delle Entrate sono pochi e non sempre chiari al riguardo».

A creare un precedente che potrebbe infine dissuadere le imprese dal proporre questo tipo di operazioni è stata una recente sentenza della Cassazione, che ha confermato un precedente pronunciamento sanzionatorio della Consob. La Corte ha confermato la condanna al pagamento di una sanzione di oltre un milione di euro, per violazione della normativa sulle offerte al pubblico di prodotti finanziari, per gli amministratori di una società che proponeva la vendita fisica di un’opera d’arte attraverso una formula sovrapponibile a quella dell’offerta di un’obbligazione di tipo zero coupon.

Un’operazione che secondo la Cassazione non si configurava come semplice compravendita di arte, bensì come collocamento di prodotto finanziario. «Benché si trattasse della vendita di un’opera fisica e non di quote di proprietà, è comunque un caso sovrapponibile e potrebbe costituire un campanello d’allarme per chi intendesse avventurarsi in questo campo», conclude Riboni.

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Elena Correggia, 30 marzo 2023 | © Riproduzione riservata

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