Alla Galleria Borghese la meraviglia della pittura su pietra

A Roma tra Cinque e Seicento marmi, alabastri e porfidi diventano supporti di una raffinata tecnica dal forte carattere simbolico

«Paesaggio con il sacrificio di Isacco» (inizio del XVII secolo), commesso di pietre dure della bottega di Cosimo e Giovanni Castrucci, Roma, Galleria Borghese
Arianna Antoniutti |  | Roma

Vittore Soranzo, prelato veneziano alla corte di Clemente VII, nel giugno del 1530 scrive a Pietro Bembo: «Dovete sapere che Sebastianello nostro veneziano ha trovato un secreto di pingere in marmo a olio bellissimo, il quale farà la pittura poco meno che eterna». Sebastianello è Sebastiano del Piombo, e da quel «secreto» si dispiega, alla Galleria Borghese, la mostra «Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma nel Seicento».

Dal 25 ottobre al 29 gennaio, con la cura di Francesca Cappelletti, direttrice del museo, e di Patrizia Cavazzini, l’esposizione presenta al pubblico oltre sessanta opere in cui la superficie della pietra non è mero supporto fisico della creazione artistica, ma ne diviene parte costitutiva, con precisi valori cromatici e allegorici. Ad aprire la mostra è un prologo cinquecentesco, in cui la pittura su pietra prende forma di ritratto, come quello di Filippo Strozzi eseguito da Francesco Salviati su marmo africano (1550 ca), o di Cosimo de Medici, attribuito a Bronzino (1560 ca), su porfido, simbolo per eccellenza di potere imperiale.

«Fino a poco tempo fa, spiega Patrizia Cavazzini, si pensava che l’invenzione della pittura su lavagna da parte di Sebastiano fosse di poco successiva al Sacco di Roma del 1527, ma può anche darsi che il pittore avesse già da prima iniziato la sua sperimentazione. Sicuramente quello che succede all’indomani del Sacco, è che viene messa in evidenza la fragilità della pittura, soprattutto rispetto alla scultura. Dunque dipingere su pietra diventa il modo per donarle eternità. In realtà, il dipinto su pietra si rivelerà tutt’altro che eterno, ma si tratta di un artificio retorico assai importante.

Nel Cinquecento, il tema del paragone fra le arti è centrale, così come il valore simbolico che le pietre assumono nel genere del ritratto, alludendo alla forza di carattere e al valore morale del soggetto raffigurato. Nel Seicento, la moda del ritratto su supporto litico si affievolisce, si predilige il racconto di storie, si modifica il formato, che diviene più piccolo, e cambiano i materiali.

Fino al tardo Cinquecento vengono utilizzati soprattutto, oltre che porfido e marmo, pietre scure, mentre dal primo Seicento si recuperano grandi quantità di marmi di scavo, alabastri, corniole, lapis, e si usano questi frammenti, soprattutto di Roma antica, da una parte con l’intento di cristianizzarli attraverso immagini sacre, dall’altro, per propagare nel mondo l’idea di romanitas.Difatti questa ti
pologia di opere era sovente utilizzata come dono diplomatico.

Altra caratteristica del XVII secolo è l’uso delle "pietre figurate", come l’agata e l’alabastro, in cui possiamo leggere immagini di fiumi, città, figure umane, paesaggi rocciosi. Penso, ad esempio, a "Ruggero libera Angelica dall'orca" dipinto a olio su alabastro da Filippo Napoletano. Da qui viene l’idea che il pittore entri in gara con la natura, senza che né l’arte né la natura vengano sopraffatte. È la perfetta unione della mano dell’uomo e della pietra creata da Dio
».

Oltre ai prestiti provenienti da musei internazionali e collezioni private, molte sono le opere di proprietà della stessa Galleria Borghese inserite nel percorso espositivo, come illustra la direttrice Cappelletti: «Stiamo lavorando, con questa e con le precedenti esposizioni su Reni e Tiziano, sui temi della natura e del paesaggio, anche per mostrare in che modo essi si innestino nella storia della Galleria di Porta Pinciana. Ad esempio, ad Antonio Tempesta, fiorentino virtuoso ed eclettico, sono riferiti una serie di dipinti su pietra paesina e su altre pietre di diverso colore, un tempo nella Collezione Borghese e ora dispersi. Ne abbiamo uno, magnifico: un ovale dipinto su entrambi i lati, abitualmente in deposito per motivi conservativi, che esporremo con grande orgoglio.

Sempre di collezione Borghese, e ancora nelle raccolte del museo, è il "Cristo morto" (1616) di Alessandro Turchi detto l’Orbetto. Realizzato su lavagna, sulla sua superficie lucida viene a specchiarsi il volto del riguardante, che entra così a far parte della scena religiosa.

Queste opere di superba fattura, assieme ad altre, come i commessi di pietre dure della bottega di Cosimo e Giovanni Castrucci, saranno esposte in un allestimento molto accurato, che offrirà la possibilità di osservare gli oggetti da vicino e, per quelli più minuti, con lente di ingrandimento. Con questa esposizione vorremmo riguadagnare una modalità di fruizione lenta e attenta, così come lenta e attenta è stata l’esecuzione da parte degli artisti. Nostro desiderio è che il pubblico possa ammirare lentamente, accarezzandoli con lo sguardo, questi oggetti davvero senza tempo
».

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Arianna Antoniutti