Al Gropius Bau chi ripara guarisce

Una collettiva richiama l’attenzione sulle connessioni tra trauma coloniale, fisico, psicologico e materiale e invita a ripensare le istituzioni artistiche

Un’opera senza titolo del 2017 di Kader Attia. Cortesia dell’artista e della Galleria Continua. Foto Toni Hafkenscheid
Francesca Petretto |  | Berlino

Collettiva di quelle ricche a cui ci ha abituato il Gropius Bau negli ultimi anni è «Yoyi! Sul prendersi cura, riparare e guarire», che presenta dal 16 settembre al 15 gennaio il lavoro di venti artisti (si spazia da Artemisia Gentileschi a Paula Rego) sul tema della riparazione in quanto ammenda, risarcimento, riscatto e guarigione.

A cura di Brook Andrew, Kader Attia, Natasha Ginwala, Bárbara Rodríguez Muñoz e Stephanie Rosenthal con Clare Molloy, in collaborazione con Serafine1369, la mostra sembra un approfondimento della contemporanea Biennale d’Arte di Berlino (fino al 18 settembre), parlando di sistemi di conoscenza postcoloniali e indigeni, mettendo in discussione la determinazione straniera dei corpi femminili ed evidenziando il cambiamento delle nozioni di disabilità e non disabilità.

Le installazioni, i dipinti e le sculture, i formati audio e le performance ospitate fanno riferimento a un immaginario di oggetti, tramite metaforico per affrontare i mali dell’anima che sfociano nei dolori dei corpi oppressi: ripariamo oggetti come curiamo i corpi; la medicina e la chirurgia non sono poi così distanti dal lavoro di un artigiano che aggiusta qualcosa che si è guastato: l’oggetto simboleggia il trauma materiale con ripercussioni sulla psiche.

La mostra richiama l’attenzione sulle connessioni tra trauma coloniale, fisico, psicologico e materiale; partendo dall’evento «Ámà: 4 Days on Caring, Repairing and Healing» tenutosi nel novembre 2021, toccando temi la cui urgenza è divenuta ancor più acuta in tempi di pandemia, invita anche a ripensare le istituzioni artistiche e a mettere in discussione ciò che è accessibile a chi.

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