«Untitled» (1938) di Ad Reinhardt, New York, The Museum of Modern Art. Dono dell’artista, 1967. © Anna Reinhardt/Vegap, Madrid, 2021

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«Untitled» (1938) di Ad Reinhardt, New York, The Museum of Modern Art. Dono dell’artista, 1967. © Anna Reinhardt/Vegap, Madrid, 2021

Ad Reinhardt, radicale e controcorrente

La retrospettiva alla Fundación March è la prima dal 1985: tocca tutti gli aspetti della prolifica carriera del pittore newyorkese. Intervista alla curatrice María Toledo

«Non credo nell’originalità, credo nella storia dell’arte» affermava Ad Reinhardt (New York, 1913-67), pittore noto per i «black paintings» che fecero scuola a generazioni di artisti minimalisti. Docente appassionato, Reinhardt utilizzò tutti i mezzi, dai saggi alle vignette satiriche e ai fumetti per insegnare alle persone a «guardare» le opere d’arte con attenzione e tempo. Trent’anni dopo la grande mostra al MoMA di New York, la madrilena Fundación Juan March presenta fino al 16 gennaio una straordinaria retrospettiva, curata da María Toledo con la collaborazione di Manuel Fontán del Junco e Lynn Zelevansky, che tocca tutti gli aspetti della sua prolifica carriera.


Si diceva che la mostra del MoMA sarebbe stata l’ultima. Perché è così difficile organizzare mostre di Reinhardt?


Le opere, specialmente le iconiche pitture nere, sono poche e molto fragili. A causa della pandemia abbiamo dovuto rinviare due volte il progetto e rinegoziare tutti i prestiti. La collaborazione della Reinhardt Foundation è stata fondamentale così come la partecipazione di Lynn Zelevansky, che era tra i curatori della mostra del MoMA. Dal 1985 è la prima mostra che presenta la sua produzione come pittore, ma anche come illustratore, docente, disegnatore di fumetti e storico dell’arte. Direi che non lo si è mai visto in tutti i suoi aspetti in un progetto così ampio, complesso e articolato. In mostra abbiamo 47 dipinti e numerosi lavori come illustratore e pedagogo, una gran parte acquistata dalla Fondazione per le sue collezioni
.


Reinhardt separava nettamente arte e vita. Come si riflette questo suo atteggiamento nella mostra?


A partire dalla citazione del sottotitolo «L’arte è arte e tutto il resto è tutto il resto», che spiega come per Reinhardt solo la pittura è arte. Mentre i suoi contemporanei difendevano la presenza dell’arte in tutti gli aspetti della vita, affermando che tutto poteva essere arte e tutti essere artisti, compreso il pubblico, Reinhardt manteneva i due ambiti nettamente separati. Non viveva della pittura, ma della sua attività come docente, illustratore di riviste e libri, autore di vignette sul mondo dell’arte e questo gli permetteva di creare le sue opere in completa autonomia, senza essere schiavo del mercato né della critica. Fu una persona estremamente radicale e controcorrente, un saggista prolifico che non esitò ad attaccare il mondo dell’arte e i suoi interessi.


Abbiamo diviso la sala in due spazi totalmente differenziati: uno dedicato alla pittura e l’altro a tutto il resto. La stessa cesura si applica al catalogo, edito in due volumi separati. Quello dedicato alla pittura è «muto», solo con immagini, un’idea che nasce dall’attività stessa di Reinhardt come curatore. Nel secondo volume appare tutto il resto, compresa la cronologia che creò per la mostra del 1966 nel Jewish Museum di New York, in cui alterna elementi biografici con eventi storici o artistici, che danno una visione ironica del contesto dell’epoca e rivelano la sua profonda conoscenza della storia dell’arte. Abbiamo usato la cronologia per creare nella sala una linea del tempo e illustrare ogni anno con il materiale più significativo che abbiamo trovato. Esponiamo anche tre opere originali, tre collage di fumetti, proprietà del Whitney Museum, ma ci pareva più interessante mostrare le pubblicazioni.



Per molti contemplare i suoi dipinti neri è un’esperienza mistica quasi religiosa…


Affinché lo spettatore possa contemplare le opere senza distrazioni, anche la sala è «muta», senza nessun elemento che possa disturbarlo, solo dei minuscoli numeri che rimandano a una pubblicazione gratuita. In una società satura di informazioni e immagini, i dipinti neri richiedono tempo e attenzione, sennò sembrano tutti uguali.

Solo dedicando loro tempo e concentrazione si percepisce una struttura a forma di croce greca, sfumature cromatiche verdastre, azzurrognole, rossicce e una specie d’illuminazione ai margini della croce. Anche se Reinhardt negò sempre che le sue opere avessero riferimenti di tipo mistico, religioso o simbolico, è inevitabile stabilire una relazione tra la croce greca e quella cristiana e anche con il mandala orientale. Sono pitture misteriose, enigmatiche, che invitano alla meditazione ed elevano lo spirito di chi le contempla
.


Esiste quindi un aspetto spirituale nell’opera di Reinhardt?


Reinhardt era esperto in arte orientale, che insegnò per anni. Anche se negava qualsiasi interesse mistico o spirituale, passò un periodo in un monastero di Kyoto e fu amico del monaco Thomas Merton che lo introdusse alla teologia della negazione di san Giovanni della Croce. Così come questo cercava di spiegare Dio a partire da ciò che non era, così Reinhardt definisce la sua opera in termini di negazione: una pittura senza forma, senza colore, senza direzione, senza limiti, senza bordi, senza struttura. Per questo è noto come il maestro dell’arte della negazione o il monaco nero. Applicava all’arte un’idea di austerità, moralità e purezza e proprio per questo non viveva dell’arte
.


Dipingeva, ma voleva anche che la gente imparasse a guardare l’arte…


Reinhardt considerava l’arte astratta l’unica possibile. Le sue opere non hanno nessun riferimento esterno, neanche il titolo e per questo è stato venerato dai minimalisti e dai concettuali che lo consideravano un padre. A differenza degli altri artisti della Scuola di New York, non arrivò all’arte astratta dal Surrealismo, fu un artista astratto sin dall’inizio. Uno dei suoi principali obiettivi era che la gente imparasse a «guardare» e per questo proiettiamo i 22 «How to look» (l’ultimo dedicato a «Guernica»), un fumetto che pubblicava sul giornale progressista «PM». «Guardare non è così facile come sembra», amava ripetere durante le interminabili proiezioni di foto che lui stesso scattava, senza ordine cronologico né geografico, ma solo formale. Oltre al catalogo abbiamo pubblicato anche un’antologia di 22 testi, di cui uno inedito
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«Untitled» (1938) di Ad Reinhardt, New York, The Museum of Modern Art. Dono dell’artista, 1967. © Anna Reinhardt/Vegap, Madrid, 2021

Roberta Bosco, 06 dicembre 2021 | © Riproduzione riservata

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