A Londra Isaac Julien fa parlare le statue

Nella Tate Britain la prima antologica del pluripremiato filmmaker e videoartista inglese

«Pas de Deux with Roses (Looking for Langston Vintage Series)» (1989-2016), di Isaac Julien. © Isaac Julien. Cortesia dell’artista e di Victoria Miro
Federico Florian |  | Londra

Dal 26 aprile al 20 agosto la Tate Britain presenta la prima antologica dedicata a uno tra i filmmaker e videoartisti britannici più celebrati nella scena dell’arte contemporanea: Isaac Julien. Premio Semaine de la Critique a Cannes nel 1991, finalista del Turner Prize 2001 e Royal Academician dal 2018, Julien è artefice di un vocabolario cinematografico delicato e puntuale, che intreccia una spiccata sensibilità estetica, una propensione all’analisi critica e un approccio squisitamente lirico. Nei suoi film, la realtà, spiega Alex Farquharson, direttore della Tate Britain, «sprofonda nel sogno, la storia nella fantasia, la norma nella sfera del queer, e la musica, la coreografia e il montaggio accompagnano i visitatori in un percorso di evasione e trascendenza sensuale, psichica e immaginativa».

La mostra londinese traccia lo sviluppo della pratica di Julien dagli anni Ottanta ai giorni nostri. Una parabola creativa che ha avvio in una Londra punk e thatcheriana: sono gli anni della formazione dell’artista alla Saint Martin’s School of Art e dei primi esperimenti video nell’ambito del Sankofa Film and Video Collective, fondato da un gruppo di studenti di belle arti di discendenza africana, asiatica e caraibica.

E sono proprio i lavori di questo periodo germinale ad aprire il percorso espositivo: fra questi, il suo primo film, «Who Killed Colin Roach?» (1983), concepito in risposta alla morte di un ragazzo di ventitré anni davanti a una stazione di polizia di East London, e «This is Not An Aids Advertisement» (1987), opera fondamentale di storia LGBTQIA+.

L’amore queer è celebrato in «Looking for Langston» (1989), fra i lavori più noti di Julien: uno spaccato del mondo privato degli artisti e degli scrittori afroamericani al centro del movimento della Harlem Renaissance degli anni Venti. Del 2007 l’installazione video a tre canali «Western Union: Small Boats», una poetica riflessione sui flussi migratori nel Mediterraneo, dal Nord Africa all’Italia, sullo sfondo di una sensuale Sicilia e del trionfo barocco del palazzo siciliano in cui Visconti girò «Il Gattopardo».

Il pezzo forte della mostra è l’ultimo film dell’artista, «Once Again... (Statues Never Die)» (2022), in anteprima europea qui alla Tate. L’installazione video ruota attorno allo scottante tema della restituzione delle opere d’arte e al nesso inestricabile tra colonialismo e collezioni pubbliche. I lavori in questione sono i manufatti di arte africana collezionati negli anni Venti dall’americano Albert C. Barnes.

Qui Julien attribuisce a tali oggetti una propria voce: «Mi interessava capire che cosa avrebbero detto le statue stesse, se avessero potuto articolare dei pensieri propri», ha dichiarato in un’intervista recente. Nel film la loro voce è interpretata dalla cantante Alice Smith, sotto forma di una ballata languida e malinconica.

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