«La scheggia» (1956) di Afro

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«La scheggia» (1956) di Afro

A Ca’ Pesaro Afro e i suoi amici di New York

La mostra è dedicata a un protagonista dell’Astrattismo internazionale negli anni cruciali della seconda metà del Novecento. Fra America e Italia

A Venezia, una mostra collaterale alla 59ma Biennale da non perdere è «Afro 1950-1970. Dall’Italia all’America e ritorno» (fino al 23 ottobre) alla Ca’ Pesaro-Galleria Internazionale d’Arte Moderna, dedicata a un protagonista dell’Astrattismo internazionale negli anni cruciali della seconda metà del Novecento, quando lo scambio tra l’Italia e l’America è «bifronte», perché frutto di una scoperta reciproca.

Tra i maestri dell’arte italiana del secondo dopoguerra, Afro (Udine, 1912-Zurigo, 1976) è tra i primi a sbarcare a New York, dove nel maggio 1950 appena trentottenne vi inaugura una personale, organizzata da Catherine Viviano nella sua galleria. In un momento in cui l’Action Painting sale allo zenit, la mostra riscuote notevoli consensi, tanto che si registrano acquisti, tra gli altri, della Barnes Foundation di Filadelfia e dell’Albright Knox Art Gallery di Buffalo.

Il pittore friulano, dal carattere gentile ma schietto, si affida così alla Viviano, che con lealtà lo aiuterà a raggiungere il successo internazionale. Per comprendere la complessità della vicenda di Afro, che conosce e si confronta con la nuova realtà artistica americana, soltanto una mostra organizzata a Venezia, dove l’artista si è formato, può far capire le ragioni della sua straordinaria affermazione.

Nel 1936 Afro compie a Venezia la sua formazione, dove allo studio di una città fondata sull’acqua (in qualche modo quello che fu lo stagno con le ninfee per Monet a Giverny) alterna lunghe soste nelle Gallerie per penetrare il segreto della pittura degli antichi maestri, il cui colore sontuoso emana luce ma anche delle ombre trasparenti ed enigmatiche, come l’acqua della laguna.

È quanto sostiene anche Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia e direttrice scientifica del progetto espositivo, costituito da 42 opere, con importanti prestiti nazionali e un nucleo di opere di «compagni di strada» tra l’Italia e l’America. La curatela è invece di Elisabetta Barisoni, storica dell’arte del museo, e di Edith Devaney, Managing Director and Curator for the David Hockney Foundation, con la supervisione della Fondazione Archivio Afro (Roma) e il supporto della Bnl.

Ad accogliere chi varca la soglia del secondo piano del museo, dove si dilata la mostra, è quindi una pittura autentica, calda ed eroica, fatta poi crescere a contatto con i migliori artisti della Galleria della Cometa a Roma nella seconda metà degli anni Trenta, da Roberto Melli a Giorgio de Chirico, da Mario Mafai a Scipione fino a Gino Severini, che vanno a braccetto con scrittori come Giuseppe Ungaretti e Libero de Libero.

L’itinerario espositivo prende infatti avvio con un «Autoritratto» (1936), in cui su uno sfondo neutro il giovane si scruta allo specchio mentre indossa una giacchetta a righe orizzontali e stringe tra le mani un pennino e una cartella di disegni, lasciando presagire la natura astratta della sua ricerca a venire.

Nelle prime due sale, l’«Autoritratto» dialoga con grandi tele caratterizzate da un cubismo in chiave metafisica, datate tra il 1948 e i primi anni Cinquanta, quando Afro vive tra l’Italia e gli Stati Uniti con i ricordi, le esperienze biografiche che si affollano dentro di lui: «Giardino d’infanzia» (1951), «Pianeta della Fortuna» (1948), il dinamico «Negro della Luisiana» (1951), che sembra implicitamente guardare «Nu descendant un escalier n° 2» di Duchamp. Quindi segue un nucleo di studi a matita della città di Venezia (1936).

Certi effetti indagati in quella occasione si scorgono nel dittico, «Città» (1952), in cui la verticalità di New York crea un gioco tra la luce naturale che piomba dall’alto e l’illuminazione che sale dal basso. Del resto lo stesso Afro, tornando su un interrogativo che si era posto già con De Libero, sostiene: «L’organismo rigorosamente formale di una pittura può contenere la leggerezza, il respiro di una evocazione, l’improvviso soprassalto della memoria? È questo per me il problema, in questo consiste la irrequietezza che mi stimola a dipingere, il quadro deve essere un mondo chiuso; il “dramma” non si può che svolgere là dentro».

Seguono «Cronaca nera» (1951), «Ricordo d’Infanzia» (1953), dominato dai toni del rosso e dei violacei, che reca la ceralacca usata dallo zio per sigillare le lettere, qualcosa che sollecitava la fantasia di Afro bambino, mentre «Villa Fleurent» (1952), uno dei capolavori esposti, mostra il colore e la forma che ora si integrano, vibrano grazie a un leggero reticolo di linee e di segni.

Dal 1954 ottiene un successo concreto in America, come dimostrano le ripetute partecipazioni alle mostre organizzate da istituzioni museali, come il MoMA, le mostre, premi, conferenze e seminari ai quali è invitato. L’anno dopo è insignito del Leone d’Oro come migliore pittore italiano alla Biennale di Venezia.

Di conseguenza la sala successiva accoglie opere dei «compagni di viaggio», tra cui «Senza titolo, estate» (1944) di Arshile Gorky, un suo maestro ideale, che spalanca quella porticina che gli permette un inabissamento nella memoria, tre oli su carta intelata dell’amico Willem de Kooning, di cui uno dedicato ad Afro, «Another/ souvenir/ “Why not”», un olio di Toti Scialoja, il quale lo sostiene durante il suo passaggio da Roma a New York, un sontuoso «Sacco e oro» (1953) di Alberto Burri, amico di tutta la vita, e un colorato «Mobile» di Alexander Calder (1951).

Osservando questi lavori tornano alla mente i momenti di gioiosa leggerezza condivisi da questi artisti, catturati nelle iconiche fotografie scattate nella notte della dolce vita romana e a Perugia.

Si passa nella sala dedicata al periodo in cui Afro vince la Biennale di Venezia (1956). Opere come «Notturno», «La scheggia» (entrambe del 1956) e «Paese giallo» (1957) testimoniano la maturità raggiunta dall’artista. Si entra quindi in un ambiente che accoglie il bozzetto finale di «Il giardino della Speranza» (1958), affresco installato nella sede dell’Unesco a Parigi.

Quindi scorrono opere lavorate con maggiore libertà, la composizione sembra nascere da uno scontro vitale, dinamico, tra prevalenti ed energiche zone nere e zone fratte di bianco, di grigio luminoso. S’impongono allo sguardo «Valle del Ferro» (1958), «Senza nome» (1959), «Occhio di lucertola» (1960).

Nell’ultima sala, la sette, sono riuniti dipinti più legati all’Italia, perché i rapporti con Catherine Viviano si allentano fino a quando, nel 1970, questa si trova a dover chiudere la galleria a causa delle nuove tendenze in corsoe Afro si lega di più all’Europa. Inoltre la perdita del fratello Mirko sembra minare la sua salute.

Spicca, infine, «L’Isola del Giglio» (1959/1969), con cui vince il Guggenheim Prize di New York. Stranamente, dopo il concorso Afro lo rielabora in modo sostanziale, creando una forma più leggera, evanescente, saldamente galleggiante su un fondo di toni chiari.
 

«L’Isola del Giglio» (1969) di Afro

«Villa Fleurent» (1952) di Afro

Francesca Romana Miorelli, 12 agosto 2022 | © Riproduzione riservata

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A Ca’ Pesaro Afro e i suoi amici di New York | Francesca Romana Miorelli

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