Al Museo Novecento il prossimo focus su personalità importanti del XX secolo, nell’ambito del progetto «Solo», ideato da Sergio Risaliti, direttore del museo, è dedicato a Vincenzo Agnetti. Dall’11 aprile al 4 luglio. «Città e territori» a cura di Giovanni Iovane, e in collaborazione con l’Archivio intitolato all’artista che coniò l’aforisma «dimenticare a memoria» (molto amato e citato da Achille Bonito Oliva, giacché, scriveva Agnetti, «la cultura è l’apprendimento del dimenticare»), analizza una delle tematiche principali dell’esperienza artistica di Agnetti (Milano, 1926-81).
È quella che l’autore sviluppa dal 1967 al 1981 rivolgendosi a diverse tipologie. Tra queste i ritratti, come «Quando mi vidi non c’ero», autoritratto in feltro del 1970, oppure il paesaggio, il territorio e la città che costituiscono il fulcro della mostra. «Prima del 1968, Agnetti è soprattutto critico, poeta e narratore, osserva Iovane. Scrive la prefazione a “Tavole di accertamento” di Piero Manzoni e dedica un libro a Enrico Castellani. Testimonianza della collaborazione con quest’ultimo è in mostra la litografia “Senza titolo” del 1968, che nel verso reca un intervento/dichiarazione di Agnetti, in un ruolo quindi “curatoriale” e al tempo stesso già artistico. Dello stesso anno, prosegue il curatore, è infatti “La macchina drogata”, una calcolatrice Divisumma 14 della Olivetti in cui Agnetti sostituisce i tasti numerici con altrettante lettere dell’alfabeto».
La mostra fiorentina si concentra sugli anni dal 1971 al 1977, con i «Feltri» e gli «Assiomi». Se gli interventi sui feltri, quindi su una materia calda, compiuti attraverso l’incisione «possono definirsi quasi gesti scultorei», come indica Iovane, gli «Assiomi» non sono propriamente opere concettuali: «Agnetti non rientra in questa categoria, ha una sua precisa identità distinguendosi per una forma più poetica e per un senso della storia e dell’archeologia del passato, “dimenticato a memoria” parafrasando una sua opera, ed esprime inoltre un aspetto performativo».
È il caso di opere in mostra quali «Tre villaggi differenti, - non c’è più nessuno» del 1977, quattro bacheliti nere incise e dipinte con vernice bianca di 50x50 cm, che contengono anche un videotape con il rumore del vento. Ma che tipo di paesaggi sono quelli di Agnetti? «Non è un viaggiatore che descrive, precisa il curatore. I suoi paesaggi e le città sono una potente sintesi che ci riporta al nostro rapporto con essi e quindi alla nostra memoria. In questo caso la parola assiomatica e poetica rende partecipe l’osservatore, restituendo attraverso lo sguardo dell’artista la nostra stessa immagine ma anche la nostra pratica legata al concetto dell’abitare».
Quindi l’artista milanese ci pone di fronte a una riflessione intellettuale ancor oggi molto attuale, tanto più che, nota Iovane, «l’origine della parola territorio è etimologicamente negativa, dal latino terror, derivazione di terrere, far diventare del colore della terra quindi atterrire, generare terrore. Tutti gli artisti di quegli anni, pensiamo soprattutto ai situazionisti o ai concettuali americani, hanno mappato la città; la geografia di Agnetti è invece culturale, storica e si riattualizza ogni volta che la vediamo».

Giovanni Iovane, curatore della mostra. Foto Cosmo Laera