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Un elefante nell’atelier

Franco Fanelli

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La raffigurazione della realtà attraverso il disegno e la pittura è un atto di conoscenza. Lo ribadì lo storico dell’arte Henri Focillon, ma ne avevano perfetta coscienza anche gli artisti antichi: come si spiegherebbe altrimenti l’apparizione del «Leprotto» ritratto in studio (lo comprova la finestra riflessa nell’occhio guardingo dell’animale) da Albrecht Dürer? È in questa direzione che va interpretata l’opera di Marzio Tamer (1963) portando l’analisi alla confluenza tra arte e scienza, come fa Lorenza Salamon, da sempre gallerista del pittore di origine veneta ma milanese d’adozione, presentandone un’antologica che si svolge dal 5 ottobre al 7 gennaio al Museo di Storia Naturale di Milano.

La sede è coerente con l’iconografia prediletta da Tamer, affermatosi come analitico (e neodivisionista, spiega la Salamon) «animalier», capace di compiere il passo dalla pura illustrazione alla pittura. Oli e tempere, alcuni di formato gigantesco (Tamer ha anche dipinto un elefante a grandezza naturale), spaziano anche sul paesaggio, sui suoi frammenti e sulla natura morta.

Nella produzione paesaggistica emerge con particolare evidenza l’interesse per Andrew Wyeth: comune con il pittore statunitense è l’adozione della tecnica del «dry brush», laddove la stesura del pigmento, a pennello precedentemente scaricato dall’acqua che fa da medium, raggiunge grande intensità. Una caratteristica, fa notare nel suo testo in catalogo Stefano Zuffi, che esalta la «tattilità» di piume, pellicce, squame, graniti, sabbie, legni arsi e fogliame.

Franco Fanelli, 02 ottobre 2017 | © Riproduzione riservata

Un elefante nell’atelier | Franco Fanelli

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