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Lorenzo Urciullo, «Giorni Sfiniti #01», 2021 (particolare)

Courtesy the Artist and Galleria Patricia Armocida

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Lorenzo Urciullo, «Giorni Sfiniti #01», 2021 (particolare)

Courtesy the Artist and Galleria Patricia Armocida

Quando non canta, Colapesce fotografa la Sicilia

Nella sua prima personale alla Galleria Patricia Armocida di Milano, Lorenzo Urciullo racconta le sue origini e il suo modo di tenerle vive per rimanere bambino

Lorenzo Urciullo (Solarino, 1983), in arte Colapesce, oltre a essere un noto cantautore, da anni coltiva anche la passione per la fotografia. Dal 16 maggio al 27 giugno, presenta alla Galleria Patricia Armocida di Milano la sua prima personale: «Doppia Uso Singola». Duecento scatti «di stanze stanche di essere stanze», raccolti in tre nuclei che attraversano dieci anni di viaggi, famiglie e ritorni in Sicilia, tra tassidermia urbana e memoria sentimentale. Lo abbiamo intervistato.

Chi è Colapesce quando non scrive canzoni?
La condizione di musicista è per me totalizzante e abbraccia anche la vita ordinaria, difficile scindere Colapesce da Lorenzo, soprattutto negli ultimi anni. Quando non sono in studio o in tour mi piace starmene vicino al mare a progettare. Leggo, guardo film, scatto foto e suono per il piacere di farlo, senza un fine discografico.

Se dovesse presentarsi attraverso una fotografia e non attraverso un brano, quale foto sarebbe?
Una foto di scena di Beat Presser durante le riprese di «Fitzcarraldo» di Werner Herzog. In basso a sinistra vediamo il regista con gli occhi felici e sullo sfondo la nave Molly Aida arenata su un crinale. È lei ad essere il fulcro della folle impresa del protagonista: trasportare una gigantesca nave attraverso una montagna per costruire un teatro in Amazzonia. È un’impresa surreale, ma per lui è l’unico modo per realizzare la sua visione. La nave è più di un mezzo di trasporto: è simbolo della sua determinazione, della sua follia e di come il sogno di qualcosa di grande possa spingere a sfidare l’impossibile. La scena è rimasta nella storia del cinema. La foto di Presser mi restituisce tutta la passione di Herzog, uno dei miei registi preferiti. Vengo da un paesino di 7mila anime e portare la mia musica fuori da lì, con i mezzi che avevo 20 anni fa, è stato come attraversare la foresta con un vecchio scafo.

La musica si ascolta ovunque, in ogni formato. E la fotografia? Instagram le basta o sogna stanze buie e pareti enormi?
Ascolto musica in tutti i formati, ognuno ha senso in base al contesto. Vale anche per la fotografia: mi piace su Instagram, alle mostre, nei cataloghi, nelle fanzine, su pareti enormi o in stanze piccole. Ogni formato ha dignità. Nella mostra «Doppia Uso Singola» le foto saranno in piccolo formato, dal 10x10 al 20x20 cm, per rispettare la forma originaria quadrata, ma faremo anche un catalogo. Magari anche degli adesivi. Non ho dogmi.

Lorenzo Urciullo, «D.U.S. #02», 2021. Courtesy the Artist and Galleria Patricia Armocida

Se la musica è una dichiarazione d’amore al tempo presente, la fotografia è un testamento? O sono entrambi modi per resistere all’oblio?
Fotografia e musica sono due buoni modi per resistere all’oblio. Per esempio, per me, Luigi Ghirri e Franco Battiato hanno la stessa importanza in una ipotetica scala della «resistenza all’oblio», me li porterò dietro per sempre, giusto per citarne un paio, ma la lista sarebbe lunga. Però temo che l’oblio alla lunga, abbia la meglio su tutto.

La sua passione per gli hotel italiani anni ’70 e ’80 nasce da una fascinazione estetica, magari per il kitsch, o è uno sguardo più intimo e sociologico sul tempo che passa?
Fortunatamente non sono un nostalgico: non cerco il kitsch per ironizzarlo, anche se a volte la risata viene da sé. Mi interessa di più capire come quel recente passato si relaziona al presente, documentare quel paradosso tra il voler restare ancorati a qualcosa e l’urgenza di adattarsi a una contemporaneità sfuggente. «D.U.S.» è una cronaca privata che racconta la mia solitudine nello spazio, ma sullo sfondo c’è anche uno sguardo sociologico. Ci sono hotel anni ’70, ’80, ma anche ’90 o ancora più recenti: è interessante osservare come cambiano attraverso le ristrutturazioni, perché in fondo siamo sempre la somma di vari strati. Però non è questo il centro del mio discorso. Come nel film, «La zona d’interesse» (2023), sai che dietro quella casa ci sono le mura di un campo di concentramento, ma il regista ti fa vivere l’intimità del primo livello.

Fotografare la casa della propria famiglia è un gesto d’amore o di archeologia affettiva? Si è mai chiesto se Teresa, sua nonna, e Anna, la sua prozia, si sentano musealizzate?
Direi, sia amore che archeologia affettiva. Teresa e Anna vivono dentro a due musei di ricordi, io provo a raccontarli con discrezione attraverso le foto degli oggetti, delle stanze in cui sono cresciuto e dove sognavo di diventare un adulto. Adesso che sono adulto e «lontano» ritorno in quelle stanze per cercare il bambino che fui.

Lorenzo Urciullo, «Teresa e Anna,#01», 2020. Courtesy the Artist and Galleria Patricia Armocida

Nel suo lavoro dedicato alla Sicilia compaiono spesso cavi elettrici e grovigli urbani. Penso a Piero Guccione, che li disegnava «perché quello c’era». Per lei questi elementi sono disturbi visivi o li considera parte di una geografia inevitabile?
La Sicilia è la culla di tantissime cose, tra cui il disordine e l’approssimazione. I cavi, così come le muffe, le porte murate e le opere incompiute sono una mia ossessione, da sempre. Non li considero affatto dei disturbi visivi, oramai sono perfettamente integrati con il paesaggio e il mio immaginario. Incredibile come, ancora oggi, molti artisti isolani (e non) facciano leva sui cliché per raccontare questa terra. Spero un giorno che le porte di alluminio anodizzato abbiano la stessa dignità del carretto siciliano. Guccione l’aveva già intuito 60 anni fa.

Se la Sicilia fosse una polaroid, sarebbe: sovraesposta, mossa, bruciata dal sole o stampata male dal tabaccaio?
Direi sovraesposta; in Sicilia c’è sempre un eccesso di luce (che cerchiamo di controbilanciare con il concetto di lutto, Gesualdo Bufalino, mio scrittore preferito, ha lavorato tanto su questi due temi).

Quando visita una mostra fotografica di qualcun altro, che cosa cerca? Emozione, tecnica, storie? E che cosa la colpisce di più: il soggetto o la composizione?
Di base cerco sempre l’emozione, che può arrivare sia da una foto sgranata, sottoesposta e in bianconero, sia da una foto macro a colori, piena di dettagli, scattata con una tecnica sublime. L’emozione, che non ha rigidi confini, dipende molto dal mio stato d’animo. Ci sono giorni che potrei emozionarmi davanti a un cumulo di calcinacci.

Se dovesse descrivere il suo gusto fotografico da spettatore, quali parole userebbe?
È un gusto Lo-Fi. La mostra del ragazzo che dormiva poco.

Ha mai comprato una fotografia di un altro artista per appenderla in casa sua? Se sì, quale? Se no, quale sogna di avere?
Mi piacerebbe comprare la foto di copertina di «And then nothing turned itself inside out» dei Yo La Tengo, scattata da Gregory Crewdson. Gli ho anche scritto, ma non ci sono ancora riuscito.  

L’ultima foto che ha salvato sul suo telefono, scattata da qualcun altro, che cos’era?
È una foto in campagna, vista mare, abbracciato alla mia prozia, Maria Urciullo, scattata da mio fratello Francesco. Alle sue spalle, l’Etna con la punta innevata.

Zavvo Nicolosi, «Ritratto. L’insonne», 2023

Rischa Paterlini, 08 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Quando non canta, Colapesce fotografa la Sicilia | Rischa Paterlini

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