È la prima volta che un architetto, in questo caso l’inglese Norman Foster, vincitore del Premio Pritzker per l’Architettura nel 1999 e che oggi primo giugno compie 88 anni, ha l’opportunità di occupare la Galerie 1 del Centre Pompidou di Parigi. Per questa ampia retrospettiva aperta fino al 7 agosto, gli organizzatori non hanno esitato a puntare su di lui: lo spazio espositivo di 2.200 metri quadrati riunisce schizzi, disegni, modelli, diorami, oggetti, fotografie, filmati e persino alcune macchine volanti o rotolanti, oltre a una manciata di opere d’arte. In tutto, sono analizzati circa 130 grandi progetti, a testimonianza di un’attività che abbraccia più di sei decenni, dal 1956 ad oggi.
I visitatori sono invitati a vagare attraverso un’immensa vetrina di disegni (ce ne sono 400), come in un’immersione profonda nel lavoro di Norman Foster. Nelle vetrine sono esposti una miriade di quaderni di schizzi e, alle pareti, schizzi incorniciati, in cui spicca la sezione trasversale degli edifici, oltre a fotografie che lo hanno ispirato. L’uomo non è solo un maestro della matita, ma anche delle parole. In un taccuino del 1987, ad esempio, troviamo un’ingiunzione sotto forma di un divertente mantra: «KISS», acronimo di «Keep It Simple Stupid», che significa «Mantieni la semplicità, stupido». Capiremo più avanti quanto sia importante la nozione di semplicità per Norman Foster.
Uscendo da questa stanza di innegabile potenza, una scenografia completamente aperta si snoda in sette temi: «Natura e urbanità», «La città verticale», «Involucri e strutture», «Storia e tradizione», «Siti e pianificazione», «Reti e mobilità» e «Prospettive future». In poche parole: Norman Foster lavora su ogni scala di progetto e su ogni sito possibile e immaginabile, compresi... la Luna e Marte, in collaborazione con la Nasa e l’Agenzia Spaziale Europea.
La filosofia come fondamento
Alle radici della sua architettura ci sono due momenti chiave. In primo luogo, nel 1962, un viaggio in California con il connazionale Richard Rogers, con il quale l’anno successivo fondò il Team 4 a Londra, durante il quale visitò le Case Study Houses, in particolare quelle di Eero Saarinen e Charles e Ray Eames, un programma di abitazioni prodotte in serie basato sull’uso di materiali industriali e di assemblaggi prefabbricati. Poi l’incontro con un teorico e inventore geniale, l’architetto americano Richard Buckminster Fuller, padre della cupola geodetica, con cui rimase in contatto per un decennio: da qui la presenza in mostra di quello strano bolide verde a forma di goccia d’acqua, il Dymaxion, che Foster aveva costruito secondo i progetti originali di Buckminster Fuller.
Il pensiero sistemico che deriva da queste due esperienze permea l’intera carriera di Norman Foster, fondendosi con una visione globale della Terra e un rapporto olistico con la natura. Egli applica questa filosofia sia in senso orizzontale, costruendo aeroporti, fabbriche, terminal marittimi, scuole e persino musei (un centro d’arte nel 1978, il Sainsbury Centre for Visual Arts di Norwich nel Regno Unito, e il Carré d’Art di Nîmes nel 1993) sia in senso verticale, con la costruzione di una serie di torri. La moltitudine di modelli qui presentati ne è una chiara indicazione.
«Un progetto inizia sempre da uno schizzo a mano. Voglio rivelare i processi che esistono dietro la progettazione, mostrare l’esplorazione che avviene a monte della costruzione di un edificio per dare un’idea delle diverse opzioni che possono essere previste attraverso disegni, simulazioni e altri modelli», spiega Norman Foster. È il caso, ad esempio, di questi modelli che esplorano le varie forme che la cupola del Reichstag di Berlino avrebbe potuto assumere prima di adottare la sua sagoma definitiva. Come abbiamo visto, Norman Foster lavora a tutte le scale, ma soprattutto su grande scala, con progetti XXL: aeroporti (una ventina, tra cui Pechino, Hong Kong, Amman, Città del Messico e Kuwait), reti di trasporto, piani urbanistici (Duisburg, Hong Kong, Marsiglia, Londra ecc.), grattacieli, strutture ingegneristiche (Viadotto di Millau) e sedi di grandi aziende, tra cui il famoso Apple Park, inaugurato nel 2017 a Cupertino, in California. L’agenzia fondata insieme alla prima moglie, Wendy Cheesman, si chiama oggi Foster+Partners e conta 1.800 dipendenti in quindici Paesi.
Un’architettura sostenibile
Celebrato negli anni Ottanta come uno dei campioni dell’high-tech (architettura ad alta tecnologia), Foster ora rigetta l’etichetta: «Non mi piace questa espressione high-tech, perché implica uno stile: acciaio e vetro», si rammarica l’architetto. «Ma se si guarda a questa mostra, ci sono altrettanti edifici in legno e in metallo. Se si risale alle sue origini, il Movimento moderno era una reazione contro gli edifici malsani; voleva essere in comunione con la natura. L’architettura non è una moda. Si tratta di sopravvivenza e qualità della vita: sono questi i principi che trascendono la moda e lo stile». Norman Foster afferma che la sostenibilità è sempre stata una delle sue preoccupazioni: «Se si guardano i miei primi progetti degli anni Sessanta e Settanta, utilizzavano pannelli solari, riciclavano i rifiuti. All’epoca era rivoluzionario, ma ora è una cosa comune. Attualmente sto costruendo una torre a New York, che è sostenibile: funziona al 100% con energia rinnovabile e ha zero emissioni nette di gas serra; sarà più alta e potrà ospitare il doppio delle persone; al piano terra ci sarà il doppio dello spazio pubblico a disposizione dei residenti; infine, il grattacielo precedente era riciclato al 97%». Si tratta della futura sede mondiale della holding finanziaria JPMorgan Chase & Co, al 270 di Park Avenue, che la mostra illustra nel dettaglio.
Di fronte alla crisi climatica, Norman Foster rimane fiducioso: «Se ci affidiamo al nostro patrimonio storico, cioè alla nostra capacità di progettare soluzioni che vanno oltre l’architettura stessa, sono ottimista. È uno stato d’animo. Penso che il futuro sarà migliore del passato. Tutti i dati statistici puntano in quella direzione. L’architettura migliora continuamente e gli standard aumentano a tutti i livelli: salute, aspettativa di vita, dimensione sociale, consumo energetico, opportunità aperte ecc. e l’architettura ne è lo specchio». Per l’Onu, l’architetto ha già lavorato a un «Piano di ricostruzione e rigenerazione» per la città di Kharkiv in Ucraina, di cui si può vedere uno schizzo in mostra.