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«Carro armato», di Alfonso Leoni

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«Carro armato», di Alfonso Leoni

L’acrobata della ceramica

Al Mic di Faenza una retrospettiva di Alfonso Leoni

Franco Fanelli

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Nascere ceramista e voler essere artista è un problema: «La tecnica, unita al catttivo gusto, è la peggior nemica dell’arte», sosteneva Goethe. E l’arte ceramica richiede magistero tecnico e impone regole inflessibili nel processo di realizzazione. Compiacersene è il peccato originale di molti tra coloro che la praticarono. Faentino e dunque inevitabilmente radicato in una tradizione, Alfonso Leoni aveva però prove tangibili che la disciplina studiata anche nel locale Istituto d’arte potesse emanciparsi da ogni ancillarità decorativa: non tanto Picasso, ma Leoncillo e Fontana impastando la terra partendo dal gesto e non dall’obiettivo dell’oggetto (come ebbe a notare Crispolti, fra i primi sostenitori di Leoni) costituirono solidi modelli per il giovane insofferente non certo alle regole, quanto alla convenzionalità che opprime certe forme d’arte.

A quarant’anni dalla sua precoce scomparsa, il Mic di Faenza gli dedica sino al 19 gennaio una retrospettiva (curata da Claudia Casali in collaborazione con l’archivio intitolato all’artista) che subito mette in evidenza un altro problema che dovette affrontare Leoni (1941-80): non adagiarsi su quei maestri, sull’Informale si era ormai cristallizzato in maniera. Il gesto, in principio, è azione contestrice: nel 1976, al Premio Faenza, distribuisce agli astanti porzioni di argilla morbida da modellare, mentre lui demolisce alcune sue vecchie opere e poi ingloba tutto in una grande sfera. Punto e a capo.

Ma era ancora possibile, negli anni Settanta ormai inoltrati, pensare all’arte secondo una dinamica avanguardista, laddove la distruzione non necessariamente precede una ricostruzione, ma diviene essa stessa iconoclastia finale? Leoni vive in un tempo in cui anche l’iconoclastia è diventata accademia. Leoni, che attraverso il collage e la modellazione del cartone esplora diverse soluzioni ritmiche e compositive, decide che tanto vale esaltare le peculiarità della sua arte.

La sua è una sorta di iperceramica: lo è negli «oggetti pieni» del ‘68, accumuli pop, smaltate «stoviglie» accumulate in uno schema che possono avere riferimenti al Nouveau Réalisme ma insieme precedono soprendentemente l’estetica Neo-Geo. Nei primi anni Settanta è il tempo di carri armati smaltati, una sorta di arguto contraltare alle ormai impolverate «Armi» di Pascali.

E mentre arrivano le importanti committenze che offrono a Leoni l’opportunità di innovare anche il design, con le serie concepte per Villeroy & Boch, questo acrobata della ceramica si afferma tra i protagonisti della riconciliazione tra arte e ornamento, tra forma e armonia, con le ultime sculture ispirate a un Neoastrattismo organico, elegantissima risposta, se si vuole, ai piatti rotti sui quali, in quel periodo, Schnabel reperiva provocatori supporti per la rinascente pittura.

Tutto ritorna, ma sempre in forma diversa; e Leoni incarnò precocememte il pensiero postmoderno anche attraverso la distruzione delle categorie cronologiche, «progettando» l’archeologia e il passato nelle «Vetrine» degli anni Settanta. Si faceva così interprete di una delle ossessioni dell’arte contemporanea, l’archiviazione (nelle teche di Mark Dion, all’insegna dell’equivalenza tra scarto e reperto) e l’ambiguità cronologica (nelle fiction archeologiche di Damien Hirst).

«Carro armato», di Alfonso Leoni

Franco Fanelli, 30 ottobre 2020 | © Riproduzione riservata

L’acrobata della ceramica | Franco Fanelli

L’acrobata della ceramica | Franco Fanelli