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«Untitled» (1960 ca), di Harry Bertoia. Cortesia del Whitney Museum of American Art, dono di Dr. e Mrs. Sheldon C. Sommers. Harry Bertoia © 2021 Estate of Harry Bertoia/Artists Rights Society (ARS), New York

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«Untitled» (1960 ca), di Harry Bertoia. Cortesia del Whitney Museum of American Art, dono di Dr. e Mrs. Sheldon C. Sommers. Harry Bertoia © 2021 Estate of Harry Bertoia/Artists Rights Society (ARS), New York

La scultura regina d’inverno negli USA

Il digitale imperversa ma negli Stati Uniti c’è voglia di materia e di volume, come testimoniano Charles Ray, Liz Larner, Harry Bertoia e Simone Leigh tra New York, Dallas e Miami

Federico Florian

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Questo inverno la scultura contemporanea è protagonista in una serie di musei statunitensi. Da Dallas a New York, ambiziosi progetti espositivi riflettono sulle moderne potenzialità di questo medium, mettendo in scena opere di artisti la cui pratica reinventa il gesto scultoreo e ne interroga i principi fondativi. 

In primis Charles Ray (Chicago, 1953), cui il Metropolitan di New York dedica un’importante antologica (dal 31 gennaio al 5 giugno). Quasi vent’anni dopo il suo «Firetruck» (1993), un camioncino dei pompieri giocattolo riprodotto a grandezza naturale e parcheggiato davanti all’ingresso del Whitney Museum, Ray continua a eleggere la scultura a campo d’indagine privilegiato per sondare la complessa relazione tra realtà, fantasia e percezione. La mostra newyorkese, nata dalla stretta collaborazione con l’artista, illustra i diversi momenti della carriera di Ray, attraverso una selezione mirata di 19 lavori.

Fra questi, la serie di sculture ispirate alle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, riunite qui per la prima volta: insieme al celeberrimo ragazzo con la rana in mano, per anni un landmark delle sponde veneziane di Punta della Dogana, trasudano un’aura quasi mistica anche le figure in acciaio inossidabile che compongono «Sarah Williams» (2021), una nuova produzione in anteprima al Met. Un altro lavoro esposto qui per la prima volta è «Archangel» (2021): prodotto a Osaka con legno di cipresso giapponese, tocca quasi i quattro metri di altezza, rappresentando l’opera più alta mai realizzata da Ray. 

Al di là di Manhattan e dell’East River, dal 20 gennaio al 28 marzo lo SculptureCenter nel distretto del Queens dedica a Liz Larner (Sacramento, 1960), scultrice come Charles Ray di stanza a Los Angeles, una grande retrospettiva in collaborazione con il Walker Art Center di Minneapolis (dove la mostra si trasferirà dal 4 aprile al 4 settembre). Nell’arco degli ultimi tre decenni, l’artista ha lavorato con i materiali più disparati: da quelli tradizionali come il bronzo, la porcellana e il vetro, alle materie più insolite e inaspettate come ciglia, ceneri vulcaniche e garze per medicamenti.

Trenta le opere in mostra, realizzate tra il 1987 e il 2021, in grado di attivare una riflessione su scultura e femminismo e le problematicità di un medium legato a una tradizione principalmente dominata da uomini. «2 as 3 and Some, Too» (1997-98), ad esempio, è un’opera che nell’aspetto rammenta due cubi che s’intrecciano ma i cui perimetri sembrano ammorbidirsi in forme «tenere» e sinuose: un’ironica allusione a Sol LeWitt e alla rigidità geometrica del linguaggio minimalista, un movimento soprattutto «maschile». «Corner Basher» (1988), anch’esso in mostra a New York, sembrerebbe materializzare un sentimento distruttivo in rapporto alla creazione scultorea e alla tradizione che la informa: in un angolo della galleria, un motore elettrico attiva una catena alla cui estremità è fissata una palla d’acciaio, che colpisce ripetutamente le pareti vicine, «scolpendovi» cavità sempre più profonde.

Un altro grande sperimentatore, a lungo ignorato dalla critica storico artistica, fu lo scultore e designer italo-americano Harry Bertoia (San Lorenzo, Pn, 1915- Barto, Pennsylvania 1978), protagonista di un’approfondita antologica presso il Nasher Scupture Center di Dallas (dal 29 gennaio al 23 aprile). Noto perlopiù per la celebre sedia prodotta per l’azienda statunitense Knoll, Bertoia fu un artista eccezionalmente prolifico e guidato da uno spirito creativo multiforme: dai gioielli e dai pezzi d’arredamento alle sculture e installazioni, le sue produzioni sono tutte frutto di un approccio e di un pensiero profondamente scultorei, nonché di un’indagine accanita del mondo dei metalli. Ricerca che trova la sua massima realizzazione nella serie di sculture sonore degli anni Sessanta, composte da una base piatta su cui si innestano sottili cilindri metallici, capaci di generare un suono simile al fruscio degli alberi mossi dal vento.

Infine, il Pérez Art Museum di Miami presenta per la prima volta al pubblico, sin dal momento della sua acquisizione nel 2018, una scultura sospesa di Simone Leigh (Chicago, 1967), artista vincitrice dell’edizione 2018 dell’Hugo Boss Prize e rappresentante degli Stati Uniti alla prossima Biennale di Venezia. «Trophallaxis» (2008-17) incombe dal soffitto, rievocando nell’aspetto un insolito lampadario: un aggregato di protuberanze in terracotta e porcellana nera simili a seni e mammelle, dalle quali spunta minacciosa una serie di antenne di automobili. L’opera, in mostra dal 27 gennaio, intesse una scomoda e complessa riflessione su fertilità, corpo femminile e identità black.

«Untitled» (1960 ca), di Harry Bertoia. Cortesia del Whitney Museum of American Art, dono di Dr. e Mrs. Sheldon C. Sommers. Harry Bertoia © 2021 Estate of Harry Bertoia/Artists Rights Society (ARS), New York

«Boy with frog» (2009) di Charles Ray. Philadelphia Museum of Art, dono di Keith L. and Katherine Sachs © Charles Ray. Cortesia della Matthew Marks Gallery

«2 As 3 And Some, Too» (1997-98) di Liz Larner. Cortesia del Museum of Contemporary Art, Los Angeles. Acquisto in memoria di Stuart Regen con fondi forniti da Thea Westreich e Ethan Wagner, Pam e Dick Kramlich, Norman e Norah Stone e Chara Schreyer

«Trophallaxis» (2008- 17) di Simone Leigh. Foto Farzad Owrang

Federico Florian, 13 gennaio 2022 | © Riproduzione riservata

La scultura regina d’inverno negli USA | Federico Florian

La scultura regina d’inverno negli USA | Federico Florian