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Camilla Bertoni
Leggi i suoi articoli«Sarà come entrare nel ventre di Moby Dick, nel ventre dell’inconscio globale della società attuale». Così Emilio Isgrò sintetizza l’esperienza da vivere alla sua grande antologica, curata da Germano Celant in collaborazione con l’artista e con la Fondazione Emilio Isgrò, che sarà inaugurata il 14 settembre alla Fondazione Giorgio Cini (fino al 24 novembre). Un percorso che intende raccontare la lunga carriera dell’artista: nato nel 1937 a Barcellona di Sicilia, dal 1964 ha iniziato a operare le prime cancellazioni di pagine scritte, gesto diventato identificativo della sua poetica.
Il testo con cui per la prima volta ora Isgrò si confronta è quello di Moby Dick, «un romanzo, spiega, che mi ha catturato come la balena cattura il capitano Achab, che ho scelto senza nemmeno sapere che cadono proprio quest’anno i duecento anni dalla nascita del suo autore». Il catalogo sarà come un volume della Treccani, per celebrare i cinquant’anni dalle prime cancellature sull’Enciclopedia Italiana, e un allestimento avvolgente esalterà l’esperienza di visita.
«Le persone, spiega ancora Isgrò, si troveranno all’interno di una grande cancellazione che si svolge sulle pareti della Cini nel cui spazio sono stati inseriti muri che lo tagliano come fossero pagine di libri. Non sono uno stile, ma un linguaggio, precisa l’artista a proposito delle sua cancellature, esattamente come dipingere o scrivere, sono l’altra faccia della comunicazione umana, un mezzo che trascende l’arte per entrare nel senso stesso della società mediatica».
E come qualsiasi linguaggio, anche quello delle cancellature evolve, finendo per assumere «tutti i crismi della pittoricità». Il segreto, racconta ancora Isgrò, è lasciarsi guidare dalla sua logica interna: «Come uno scultore vede già la figura che va a trovare nel suo blocco di marmo, in una pagina vedo già quello che voglio trovare, agisco nella grande massa della comunicazione per trovare forme inattese e rivelatrici».
Il tutto senza mai perdere di vista l’obiettivo principale che secondo Isgrò l’arte, per definirsi tale, deve avere: «Risvegliare un senso di libertà, giustizia e pietà umana. L’arte è la religione dei laici, la grande fonte a cui si è abbeverata la borghesia occidentale. L’arte nasce impegnata, è l’altra forma di politica, deve portare necessariamente un messaggio di intervento sociale, ammonisce, segnalando problemi che la filosofia e la scienza non sempre riescono a evidenziare, permettendoci di conoscerli. Non parlo di concretezza, ma di affetto generale del mondo, che riguardano il benessere mentale e materiale del mondo. La politica viene dopo».

Emilio Isgrò all'opera. Foto di Andrea Valentini