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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliProfessor Curatola, come nasce l’idea della mostra?
Da una proposta dei due direttori dei musei fiorentini degli Uffizi, Eike Schmidt, e del Bargello, Paola d’Agostino.
Perché la scelta è caduta sull’Islam?
Al Museo del Bargello esiste il nucleo più importante d’opera islamica in Italia, frutto soprattutto della donazione a fine Ottocento di oltre 3.300 oggetti del francese Louis Carrand, che in odio ai troppo aperti conterranei ha voluto premiare Firenze: i molto amati avori, tessuti, legni e gli straordinari metalli. Sono materiali di stupefacente importanza che tutto il mondo ci invidia. La sala islamica al Bargello ha 35 anni e fu concepita da Marco Spallanzani e dal sottoscritto, per impulso di una donna senza pari nel campo della storia dell’arte, Paola Barocchi, la «Signorina», e di una grande direttrice, Giovanna Gaeta Bertelà, che hanno posto il meglio dell’Islam a contatto con Donatello.
Ma allora non bastava andare a vedere la sala islamica del Bargello?
Quello è la base di partenza ma il ragionamento che abbiamo svolto nel comitato scientifico è stato molto più ampio. Senza gli studi di Marco Spallanzani sui commerci d’opere islamiche nel Rinascimento, la mostra non avrebbe lo spessore che ha; Alberto Boralevi è un antiquario e pure se, o proprio perché, anche io ho competenza in ambito tessile e di tappeti, la sua ridotta ma significativa scelta mi è parsa esemplare; Claus Peter Haase è stato direttore del museo islamico di Berlino: a lui dobbiamo la scelta dei metalli e dei manoscritti; Catarina Schmidt Arcangeli ha contribuito al tema della ricezione dell’Oriente islamico nella pittura toscana. In mostra ci «accontentiamo» di avere l’«Adorazione dei Magi» di Gentile da Fabriano con le aureole in caratteri arabi e le stoffe orientali.
Voglio ricordare anche i due direttori, affiancati da Valentina Conticelli e Matteo Ceriana; e ancora Elisa Gagliardi Mangilli, esperta di tessili, e Alessandro Bruschettini, accorto collezionista, oltre ai direttori e funzionari delle altre istituzioni fiorentine che hanno collaborato (le Biblioteche Nazionale, Riccardiana, Laurenziana, Marucelliana), lo Stibbert e il Museo Bardini, le Soprintendenze...
Che cosa racconta la mostra?
Un certo Islam, una certa Firenze fatta di grandi relazioni, politiche, commerciali, di idee. Certo anche l’esotico (immagini la giraffa che il sultano d’Egitto mandò a Lorenzo nel 1487 in piazza della Signoria) e i tessuti, migliaia di metri di preziosi panni fiorentini che i turchi Ottomani sbavavano per avere, le ceramiche che venivano da quell’Oriente che Oriente non è...
In che senso?
L’Islam di Spagna, con quei lustri con stemmi fiorentini che ogni famiglia importante, Medici compresi se non in primis, possedeva, talvolta in decine o centinaia di pezzi. Poi i tappeti (belli, bellissimi e grandissimi), le armi, uno dei doni preferiti sia da noi sia da loro, e tante piccole storie nella Storia.
Perché due musei?
Al Bargello mostriamo il «revival» di conoscenza e ricerca a fine Ottocento (il capoluogo toscano fu capitale, con l’arabista Michele Amari, anche ministro della pubblica istruzione, dell’Orientalismo italiano), che ebbe la sua punta con la già citata donazione di Carrand e con l’altro grande straniero, Frederick Stibbert, ma anche con i toscani Stefano Bardini e Giulio Franchetti. In quel clima si è sviluppato uno dei più importanti musei d’arti decorative del mondo, e allora l’Islam, che non era demonizzato come oggi, non era certo alla periferia, tutt’altro.
Ha dovuto rinunciare a qualche prestito?
Abbiamo dovuto registrare qualche secco no per prestiti dall’estero, come dai musei islamici di Berlino, già impegnati su un altro progetto italiano. Ma nonostante questo abbiamo opere da Louvre, British Museum, Metropolitan, Lione, Dresda, Doha, Toronto, Kuwait, Washington, oltre che dai musei italiani.

Giovanni Curatola è ordinario di Archeologia e Storia dell’arte musulmana all’Università di Udine