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Lesley Lokko. Foto: Andrea Avezzù. Cortesia di La Biennale di Venezia

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Lesley Lokko. Foto: Andrea Avezzù. Cortesia di La Biennale di Venezia

Biennale: non basta più essere solo architetti

La curatrice Lesley Lokko chiama ai Giardini e alle Corderie 52 «practitioner» per il suo «Laboratorio del futuro». Parole chiave: decarbonizzazione, decolonizzazione, sostenibilità, cambiamento

Alessandro Martini

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«Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo. Prende in prestito struttura e formato dalle mostre d’arte, ma se ne distingue per aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di raccontare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo. È stato chiaro fin dal principio che “The Laboratory of the Future” avrebbe adottato come suo gesto essenziale il concetto di “cambiamento”».

Lesley Lokko è la curatrice della 18ma Mostra Internazionale di Architettura (dal 20 maggio al 26 novembre ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera) che, fin dal titolo «The Laboratory of the Future», si annuncia non solo sperimentale e propositiva ma anche, sotto molti punti di vista, fortemente politica e addirittura «sostenibile»: mira alla «neutralità carbonica» e nel presentarsi al pubblico riflette sui temi della decarbonizzazione e decolonizzazione.

«Noi architetti abbiamo un’occasione unica per proporre idee ambiziose e creative che ci aiutino a immaginare un più equo e ottimistico futuro in comune», ha dichiarato Lokko, forte di un’esperienza professionale che, in trent’anni, si è focalizzata sulle molteplici relazioni tra «razza», cultura e spazio. Intanto, nella sua mostra «l’equilibrio di genere è paritario», sottolinea, «e l’età media dei partecipanti è di 43 anni».

Lesley Lokko, 59 anni, è nata a Dundee in Scozia ed è cresciuta in Africa, si è formata in Gran Bretagna e Stati Uniti, vive tra Londra e Accra. Proprio nella capitale del Ghana ha fondato nel 2020 l’African Futures Institute, scuola di specializzazione in architettura, centro di ricerca e piattaforma di eventi pubblici, di cui è tuttora alla guida. Docente e architetta di formazione, impegno e prospettive «globali», Lokko è anche scrittrice e autrice di 11 romanzi dal 2004 ad oggi, molti dei quali pubblicati anche in italiano (da Mondadori).

È lei, figura di assoluto riferimento nel panorama attuale più orientato all’incrocio e allo scambio tra territori, culture e linguaggi, a guidare una Biennale sempre più globale. L’ente veneziano, d’altra parte, non è nuovo a questo sguardo insieme politicamente corretto e profondamente impegnato.

Se nel 2014 era stato un grande vecchio-giovane come Rem Koolhaas a parlare delle «basi» della disciplina («Fundamentals» era il titolo dell’edizione a lui affidata), già nel 2016 il direttore cileno Alejandro Aravena si impegnava in un «Reporting from the front» («integrando il pragmatico con l’esistenziale, la pertinenza con l’audacia, la creatività con il buonsenso»), mentre nella più recente edizione del 2021 Hashim Sarkis si è appellato a un’architettura attiva e operativa: «In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme».

«The Laboratory of the Future» di Lesley Lokko prende il via nel Padiglione Centrale ai Giardini, dove sono riuniti 16 studi che rappresentano un distillato di «Force majeure» (forza maggiore) della produzione architettonica africana e diasporica, con protagonisti internazionali come lo studio Adjaye Associates (attivo da Accra a Londra e New York) ma anche atelier masomi dal Niger, Cave_bureau dal Kenya e Sumayya Vally e Moad Musbahi, con radici in Sudafrica e Libia.

Si sposta poi nelle Corderie dell’Arsenale, con la sezione «Dangerous Liaisons» (Relazioni Pericolose: 36 studi, compresi tre «italiani» come Bdr bureau e carton123 architecten, attivi tra Torino e Bruxelles, Amaa Collaborative Architecture Office For Research And Development a Venezia e Orizzontale a Roma), presente anche a Forte Marghera con l’installazione esterna della Sweet Water Foundation (Usa), e si completa con i «Progetti Speciali della Curatrice». Protagonisti sono giovani «practitioner» africani e diasporici.

«Abbiamo scelto di qualificare i partecipanti come “practitioner” e non come architetti, urbanisti, designer, architetti del paesaggio, ingegneri o accademici», chiarisce la curatrice, «perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”».

Quasi la metà dei partecipanti proviene da studi a conduzione individuale o composti da un massimo di cinque persone. Sono tutti impegnati a dare risposte alle domande che Lokko pone alle basi della sua mostra: «Che cosa vogliamo dire? In che modo ciò che diremo cambierà qualcosa? E, aspetto forse più importante di tutti, quello che diremo noi come influenzerà e coinvolgerà ciò che dicono gli “altri”, rendendo la Mostra non tanto una storia unica, ma un insieme di racconti in grado di riflettere l’affascinante, splendido caleidoscopio di idee, contesti, aspirazioni e significatiche ogni voce esprime in risposta ai problemi del proprio tempo?».

Lesley Lokko. Foto: Andrea Avezzù. Cortesia di La Biennale di Venezia

Alessandro Martini, 16 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

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