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Monica Trigona
Leggi i suoi articoliPosticipata al 2022 a causa della pandemia (l’ultima edizione è stata quella del 2019), la Biennale d’Art Contemporain di Lione, diretta da Isabelle Bertolotti, ritorna dal 14 settembre al 31 dicembre con una missione precisa anticipata dal suo titolo: «Manifesto of fragility».
Concepita dai suoi curatori, Sam Bardaouil e Till Fellrath, direttori dell’Hamburger Bahnhof, museo d’arte contemporanea di Berlino (oltre che curatori del padiglione francese alla Biennale di Venezia 2022), come un «manifesto della fragilità», la kermesse conferisce alla condizione di incertezza e vulnerabilità una nuova lettura: «Una forma generativa di resistenza che è incoraggiata dal passato, sensibile al presente e preparata per il futuro».
Il manifesto redatto dai due curatori invita gli artisti ospiti (a giugno la lista definitiva dei nomi invitati da tutto il mondo) a indirizzare la propria sensibilità verso il mondo che li circonda per formulare percorsi generativi di resistenza. La riflessione in atto parte dalla consapevolezza che la fragilità è ciclica e inevitabile: da quello status corporeo che trova nelle discriminazioni razziali, di genere e sociali motivo di conflitto interiore sino a giungere alla precarietà diffusa e condivisa, palesemente evidente oggi.
Ecco, quindi, l’interrogativo che la manifestazione avanza: «Che cosa ne sarebbe del nostro mondo se invece di evitare la vulnerabilità come segno di debolezza, dovessimo sfruttarla come base per una presa di coscienza?». Opere d’arte e manufatti di vari periodi storici, e di provenienza diversa, sono riuniti «sotto lo stesso tetto» alla ricerca di connessioni e per testimoniare incertezze e perseveranze oltre i limiti della geografia e del tempo.
«Manifesto of fragility» si struttura attraverso i contributi di oltre 80 autori contemporanei provenienti da 39 Paesi e attraverso la presenza di 100 proposte artistiche e oggetti storici che coprono l’arco di due millenni: «La Biennale pone un punto di intersezione tra i due assi per avviare un’esplorazione focalizzata della fragilità nel contesto dell’abbagliante ma tumultuosa era degli anni ’60, della cosiddetta “età dell’oro di Beirut”, con 230 opere di 34 artisti e più di 300 documenti d’archivio provenienti da quasi 40 collezioni in tutto il mondo. Questa sezione della Biennale acquista ulteriore importanza a Lione, visti i legami storici della città con Beirut incentrati sul commercio della seta del XIX secolo e l’istituzione del Mandato francese nel 1920».
La mostra si avvale di importanti prestiti provenienti dal Metropolitan Museum of Art di New York, del Louvre Abu Dhabi, delle Staatliche Kunstsammlungen di Dresda e da molte delle principali istituzioni lionesi (dal Musée des Beaux-Arts e il Musée Lugdunum ai teatri romani e ai Musées Gadagne) e inizierà a svolgersi ben prima di settembre attraverso collaborazioni con diverse istituzioni partner in città fino alla fine del 2023.
Gli spazi dell’esposizione sono le Usines Fagor, il macLYON e tante altre sedi espositive cittadine (da scoprire a giugno) dagli stili architettonici disparati, nell’ottica di generare possibilità dinamiche per nuovi incontri.

Da sinistra, la direttrice artistica della Biennale di Lione, Isabelle Bertolotti, e i curatori, Sam Bardaouil e Till Fellrath. © Blandine Soulage