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Una veduta del Padiglione del Bahrain

Foto di Andrea Avezzù , Courtesy La Biennale di Venezia

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Una veduta del Padiglione del Bahrain

Foto di Andrea Avezzù , Courtesy La Biennale di Venezia

Biennale Architettura 2025 • Meglio&Peggio

I migliori Padiglioni della 19ma edizione della kermesse veneziana secondo «Il Giornale dell’Arte»: Bahrain, Brasile, Danimarca, Lettonia, Spagna e Svizzera. I peggiori: Emirati Arabi Uniti, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Paesi Nordici e Singapore

Michele Roda, Alessandro Colombo, Laura Milan e Cristiana Chiorino

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Regno del Bahrain: «Heatwave»

Un piccolo allestimento capace di convincere tutti. Sono grandi cuscini a terra a occupare i quattro lati della piccola stanza delle Artiglierie. Insieme alla bassa copertura (con tanto di scritta: attenzione, altezza inferiore a 240 cm) essi definiscono un’atmosfera intima di inattesa ospitalità. Misurato e accogliente, il padiglione non è solo uno spazio pubblico in cui sfuggire al caldo di città e paesi del Bahrain, bensì l’applicazione qualitativa (anche in termini di design) di principi costruttivi di controllo e mitigazione delle alte temperature.

Una veduta del Padiglione del Brasile. Foto di Luca Capuano, Courtesy La Biennale di Venezia

Brasile: «Re(invention)»

Una riflessione su natura e città con temi comunicati con forza ed eleganza insieme. Nella prima parte il padiglione racconta gli insediamenti indigeni e la loro maturità urbanistica e territoriale, nella seconda si indagano le tipologie per intervenire nella città contemporanea. Il restauro del padiglione di Amerigo Marchesin ci dona due bellissime viste sull’area dei Giardini oltre canale. L’allestimento di legno naturale supporta bene la ricca grafica e, nella sala posteriore, ci affascina un lungo tavolo in equilibrio statico con i pannelli appesi davanti alle pareti.

Una veduta del Padiglione della Danimarca. Foto di Marco Zorzanello, Courtesy La Biennale di Venezia

Danimarca: «Build of Site»

Fare di un cantiere un’occasione allestitiva è la sfida vinta dalla Danimarca: il Ministero di Copenaghen sta ristrutturando il suo edificio ai Giardini. Alla Biennale non si può fare un restauro normale e allora lo si mette in vetrina. All’osservatore frettoloso pare un catalogo in scala 1:1 di materiali e tecnologie. Risulta comunque piacevole, da visitare e scoprire. Ma c’è di più, ovvero un’intensa ricerca su dettagli e particolari che giustamente viene valorizzata. Molti elementi sarebbero stati destinati alle discariche: con questo allestimento diventano invece risorse per il riuso. Efficace.

Una veduta del Padiglione della Lettonia. Foto di Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Lettonia: «Landscape of Defence»

Piccoli oggetti decontestualizzati di color giallo fluo. Il padiglione è una stanza condivisa dalle ridotte dimensioni, eppure parla dei temi più grandi del nostro tempo: guerra, identità, paesaggio. La Lettonia, raccontano i curatori Liene Jakobsone e Ilka Ruby, è il confine dell’Europa e della Nato. Da rafforzare perché di là c’è la Russia con le sue politiche di aggressione «e noi, spiegano, vogliamo costruire elementi per la difesa lungo il confine che non trasmettano la sensazione di paura» ma di gioiosa identità: difendersi costruendo un paesaggio attraente.

Una veduta del Padiglione della Spagna. Foto: Luis Diaz

Spagna: «Internalities. Architectures for Territorial Equilibrium»

La bella sala centrale accoglie con un’efficace scenografia di bilance in legno che esemplificano gli equilibri e i costi ambientali delle costruzioni. Il padiglione spagnolo dimostra come il tema della Biennale possa essere affrontato con precisione rimanendo nel solco dell’architettura e del progetto. Tutto attorno modelli, fotografie, disegni e dettagli illustrano realizzazioni di grande interesse lungo il crinale della decarbonizzazione. Elegante è l’allestimento che predilige il legno come materiale principale e in modo misurato, così come avviene per le efficaci grandi cornici inclinate.

Una veduta del Padiglione della Svizzera. Photo: Marco Zorzanello. Courtesy of La Biennale di Venezia

Svizzera: «Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt»

Il lungo titolo in tedesco necessita di traduzione: «La forma finale sarà determinata dall’architetta sul cantiere». Il padiglione svizzero è tutto femminile (come il team curatoriale) e lavora sulla figura di una delle prime architette elvetiche, Lisbeth Sachs. Convincente nella sua capacità di suggestionare con una forma alternativa: una pianta segnata da diaframmi in legno verniciati di grigio scardina quella reale (costruita da Bruno Giacometti) e definisce spazi ibridi e un po’ spiazzanti. Dimostra che un’intuizione intellettuale può trasformarsi, e bene, in architettura.

Una veduta del Padiglione degli Emirati Arabi Uniti. Foto di Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Emirati Arabi Uniti: «Pressure Cooker»

Una serra scomposta per raccontare la relazione tra architettura e produzione alimentare in una realtà geografica con molti paradossi e tanti rischi. Alta l’ambizione e forte l’attualità dell’argomento, ma il risultato è deboluccio, perché senza il rosso dei pomodorini o il verde delle foglie di basilico resta un allestimento senza colore e senza nemmeno grande verve. Anche l’idea del kit per costruire la struttura, con glossario architettonico base (pavimento, parete, tetto, utensili) e gamma di possibili combinazioni, pare posizionarsi nel campo del già (troppo) visto. Cotto e mangiato.

Una veduta del Padiglione Italia. Foto di Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Italia: «TERRÆ AQUÆ. L’Italia e l’Intelligenza del mare»

Un esperimento partecipativo attraverso una Call apertissima, forse pure troppo. Una selezione minima di quanto pervenuto si fa Wunderkammer in cui i contenuti sono acriticamente messi sullo stesso piano, persi in una selva di video e pannelli difficili da leggere. Partecipanti, progetti e progettisti restano anonimi, penalizzati da un allestimento poco interattivo e datato, lontano anni luce dalla raffinatezza e intelligenza che servirebbe, considerato anche il tema. La curatela (di Guendalina Salimei per il Ministero della Cultura) ha abdicato, disperdendo ogni messaggio. Che peccato, un’occasione sprecata.

Una veduta del Padiglione del Granducato del Lussemburgo. Foto di Melania della Grave

Granducato di Lussemburgo: «Sonic Investigations»

Buone le intenzioni: spostare l’attenzione dalla vista all’ascolto, incentivando forme alternative di relazione con i luoghi. Ma il risultato è un non riuscito, con buona pace di John Cage e della sua «4’33”», a cui s’ispira la traccia sonora proposta. Non basta uno spazio buio con una pedana dura per indagare i confini fra umano e non umano e per superare le prospettive antropocentriche, come dichiarano i curatori. L’esperienza dovrebbe essere meglio supportata e spiegata per diventare convincente, per permettere di ascoltare lo spazio e di vedere il suono. In questo caso la sfida non è vinta.

Una veduta del Padiglione dei Paesi Bassi. Foto di Luca Capuano, Courtesy La Biennale di Venezia

Paesi Bassi: «Sidelined: A Space to Rethink Togetherness»

Sicuramente lo sport influenza i comportamenti e da lì si può partire per migliorare le dinamiche di relazione sociale, come da programma della partecipazione olandese. Il Bar Sport è inteso come «tipologia» per eccellenza, luogo dove esprimersi e incontrarsi, a tutte le latitudini. Ma in un padiglione dal disegno raffinato come quello di Gerrit Thomas Rietveld non si poteva trovare un tono espressivo diverso? Le superfici molli e artificiali, i colori devastanti e invasivi non sono compensati dalla sciarpa da sportivo che ti puoi guadagnare con la visita. Non è meglio, allora, il calciobalilla del vecchio bar di campagna?

Una veduta del Padiglione dei Paesi Nordici. Courtesy La Biennale di Venezia. Photo: Marco Zorzanello

Paesi Nordici: «Industry Muscle: Five Scores for Architecture»

Le premesse (contrastare le norme sociopolitiche della cultura fossil-based e ripensare l’architettura contemporanea attraverso la lente del corpo trans) sono forti e pertinenti, ma il messaggio si perde. Lo spazio e la luce del padiglione di Sverre Fehn, con la sua potenza modernista, sovrastano l’intervento dell’allestimento contemporaneo che fatica a imporsi. Le cinque composizioni speculative proposte dall’artista finlandese Teo Ala-Ruona appaiono fuori contesto, forse perfino troppo ambiziose. C’è contrasto, ma non si riesce a generare il dialogo necessario: vince l’architettura, perde il contenuto.

Una veduta del Padiglione di Singapore. Courtesy La Biennale di Venezia. Foto: Luca Capuano

Singapore: «Rasa-Tabula- Singapura»

Con un complicato gioco di parole tra latino, malese, sanscrito e inglese, Singapore celebra il suo 60mo compleanno. Una lunga tavola, specchiata sia in basso sia in alto, ospita un caotico affastellamento di oggetti, tra tradizione e Intelligenza Artificiale. «Più che un posto dove cenare, scrivono i curatori, è un forum in cui convergono politica, storia e progettazione partecipativa». Dovrebbe raccontare la «superdiversità» culturale di Singapore, ma materiali tanto eterogenei rendono il risultato soprattutto una super confusione. Pur con ingredienti di qualità, il pasto insomma rischia di essere indigesto.

Michele Roda, Alessandro Colombo, Laura Milan e Cristiana Chiorino, 21 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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