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Silvano Manganaro
Leggi i suoi articoliNegli spazi della T293, dal 22 marzo al 27 aprile, una doppia personale di Ethan Cook ed Erica Mahinay ci invita a riflettere sul concetto e sull’identità della pittura o, meglio, del quadro. Pensando al lavoro del primo sicuramente potremmo parlare di quadri ma, allo stesso tempo, non di pittura. Se un quadro è bidimensionalità e colore, sicuramente siamo sulla strada giusta, se si tratta invece di utilizzare il pennello le cose si complicano.
Occorre dire per l’ennesima volta, che i lavori di Cook vanno assolutamente visti dal vivo, e non dallo schermo di un computer o, peggio, di uno smartphone. Americano classe 1983, realizza composizioni astratte cucendo tra di loro tele di cotone colorato tessute a mano: il risultato è sempre pulito, armonioso, seducente.
Nei suoi ultimi lavori, esposti in galleria, si concentra su composizioni «a bande orizzontali», che ricordano vagamente alcuni lavori di Sean Scully. Ma qui, appunto, non c’è pittura, e la larghezza delle strisce è determinata dalla larghezza del telaio.
Diverso e più informe il lavoro della Mahinay, nata nel 1986 a Santa Fe, che in poco meno di dieci pezzi sceglie di unire visualità a testualità, attraverso un gioco di cuciture, di smontaggio e assemblaggio fatto questa volta non con il tessuto ma giocando con i titoli dei quadri. I suoi lavori, di un rosso sangue, hanno un che di organico, di embrionale, ma non certo di rassicurante.

A sinistra «TBT», 2019, di Erica Mahinay; a destra, «Untitled», 2019, di Ethan Cook
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