Edek Osser
Leggi i suoi articoli«Meno mostre, più musei». È quasi un anatema quello lanciato dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la sua visita a Napoli nel giugno 2014. In tanti sono d’accordo: di mostre se ne fanno troppe, molte prive di contenuti, organizzate solo per far soldi, per rivitalizzare musei poco frequentati o soltanto per attirare nei musei i turisti di passaggio. Mostre popolari: «blockbuster», «in affitto», «a pacchetto», che girano senza logica da una città all’altra per abbattere i costi. Ma il mondo che si muove intorno alle mostre è complesso e variegato. Poche imprese specializzate monopolizzano il mercato e riescono a sopravvivere (anche a guadagnare) nonostante la lunga crisi economica che ha prodotto il taglio drastico dei finanziamenti delle amministrazioni pubbliche e quello totale dello Stato, oltre che aiuti ridotti dalle fondazioni e dagli sponsor. Comunque il pubblico delle mostre continua a crescere.
Grandi budget
Produzione e realizzazione delle grandi mostre vengono quasi sempre affidate a imprese private, che agiscono in accordo con Soprintendenze, musei, Amministrazioni pubbliche; a volte si tratta di fondazioni, società editrici o società indipendenti: ben noto il caso di Linea d’ombra di Marco Goldin, il primo in ordine di tempo e il più noto imprenditore «che fa tutto da sé».
Queste imprese non sono molte, e tra queste è 24 Ore Cultura oggi probabilmente il più grosso «produttore» di mostre in Italia. «Lavoriamo a Milano, Torino, Genova, Verona, arriviamo fino a Parigi, ci dice il suo amministratore delegato Natalina Costa, orgogliosa dei risultati raggiunti. Siamo tra gli unici al mondo a gestire in proprio un museo, il Mudec (Museo delle Culture) di Milano. Esiste soltanto un altro caso in Francia, Culturespaces (cfr. articolo a p. 19, Ndr). Siamo partiti con l’operazione Mudec a marzo 2014, abbiamo cominciato a lavorare alla mostra di Gauguin a luglio e l’abbiamo aperta poco più di un anno dopo, a ottobre del 2015». Alle critiche radicali di chi è contro le mostre perché troppe, inutili, causa di sprechi, a volte dannose, Natalina Costa risponde che basta guardare all’estero: «Gran parte dei massimi musei del mondo, come Louvre, Metropolitan, National Gallery, MoMA, Pompidou ecc.) hanno un’attività espositiva permanente. L’unico modo che ho per convincere la mia utenza, i miei cittadini, a tornare nel museo che hanno già visto è attirarlo con una “attività” di mostre. Il caso Mudec è ancora più estremo: si tratta di un museo etnografico del Comune di Milano che potrebbe aspirare ad avere 30mila visitatori all’anno che non bastano neppure a pagarne le utenze. Soltanto per tenerlo aperto, il Mudec costa 7mila euro al giorno».
È però sempre più necessario realizzare mostre di qualità e ci si chiede se la scommessa può essere vinta. È un problema di idee ma soprattutto di soldi da investire per evitare la degenerazione. Quello dei finanziamenti è un punto critico. «È così. Dobbiamo sapere che quando ci si impegna in mostre di grandi artisti tra fine Ottocento e Novecento dobbiamo parlare di grandi budget. La mostra di Picasso del 2012, la più visitata di sempre a Milano (558mila visitatori) è costata 5,7 milioni di euro. La domanda è: una cifra simile si può recuperare, ci si può anche guadagnare? Nella mia carriera ho fatto quasi 70 mostre: redditizie sono state una su dieci. Quello che consente al Mudec di avere una buona mostra come quella di Gauguin è anche bar, ristorante, design store, museo per i bambini, garage, un microcosmo che permette economie di scala». È chiaro che il problema economico è centrale: le mostre basate su autori «facili» e popolari, senza grande preparazione, prese in affitto «a pacchetto», garantiscono un successo sufficiente a costi contenuti.
Ma è altrettanto chiaro che difficilmente generano cultura. D’altra parte, le aziende che producono mostre, come 24 Ore Cultura, sono imprese private che investono denaro e non possono perderlo. Natalina Costa cita come esempio alcuni casi di mostre di qualità finite male: «Mi ha reso orgogliosa quella di Henri Rousseau a Palazzo Ducale a Venezia (chiusa a settembre 2015, Ndr). In tutto 70mila visitatori: si è ripagata per meno della metà. Nel 2014 abbiamo anche realizzato la mostra di Bernardino Luini a Palazzo Reale a Milano. Lunga, attenta preparazione, risultati scientifici originali, investimento notevole, mostra molto bella. Risultato: 28mila visitatori. Sono esiti che, ripetuti, non siamo in grado di sopportare pena la chiusura dell’azienda. È chiaro che la richiesta del pubblico va verso gli artisti più noti. Ma credo che la vera differenza tra mostre belle e brutte non dipende tanto dal nome dell’artista quanto da come si costruisce. Abbiamo appena lanciato la mostra di Matisse a Palazzo Chiablese a Torino, con costi pesanti, intorno ai 3 milioni: con le sole spese di base, comprese assicurazioni, trasporti, curatele ecc., siamo a 2,4 milioni. A Milano abbiamo le sponsorizzazioni, per ogni mostra in media dai 150 ai 300mila euro. A Torino non è ancora così, Venezia è a zero. Non prendiamo un euro dalle istituzioni pubbliche e in periodi di crisi come questo mi sembra corretto. I nostri introiti sono i biglietti, dai 12 ai 14 euro a ingresso, dai bookshop (calcoliamo da 2 a 4 euro a visitatore) e dagli “eventi” legati alla mostra. Queste entrate se la mostra ha successo, sono sufficienti».
Modelli di organizzazione
Dal fiume di esposizioni «spazzatura» emergono episodi positivi di istituzioni culturali che hanno creato validi modelli, anche organizzativi. Un buon esempio è Ferrara. Maria Luisa Pacelli è dirigente comunale a capo della Fondazione Ferrara Arte, che si occupa del Museo d’arte Moderna e Contemporanea e dal 1991 produce mostre di qualità, nel magnifico Palazzo dei Diamanti. La Fondazione ferrarese è unica nel suo genere: pubblica e autosufficiente. Maria Luisa Pacelli spiega che questo è anche un risparmio: «Le istituzioni che fanno mostre appaltano gran parte del lavoro all’esterno e quindi c’è bisogno di un doppio guadagno. Noi facciamo quasi tutto da soli, anche i nostri cataloghi. Il problema è sempre uno: coniugare la qualità con un numero di visitatori che renda il progetto sostenibile. Non facciamo mostre soltanto per acchiappare turisti, né soltanto scientifiche, per pochi intimi. Seguiamo da sempre questa filosofia», ci dice. È un percorso valido? La storia di Palazzo dei Diamanti lo conferma: dopo 25 anni e più di 50 mostre dimostra che una importante struttura espositiva pubblica può sopravvivere in una piccola città. «La qualità non è soltanto un obbligo “morale”. La reputazione acquisita ci consente di ottenere prestiti gratuiti dai grandi musei del mondo. Fondamentale è poi la fiducia del pubblico, che sa di non essere preso in giro con mostre “finte” e quindi torna ogni anno. Nel 2013 abbiamo dedicato una mostra a Francisco de Zurbarán, un artista poco conosciuto, eppure abbiamo avuto 80mila visitatori: per oltre l’80% non era la prima volta a Palazzo dei Diamanti. La mostra, costata 1,1 milioni di euro ha raggiunto il pareggio con 300mila euro di finanziamento pubblico, che resta comunque essenziale e viene dalla tassa di soggiorno». Ma Ferrara è uno dei pochi Comuni che investe ancora cifre significative per mostre.
Organizzare e produrre mostre richiede professionalità complesse: il dilagare di quelle «a pacchetto» è dovuto spesso alla mancanza di competenze organizzative e di impegno. Affittarne una preconfezionata, anche se talvolta di bassa qualità, è semplice e comodo. Ma non sempre costa meno. Per di più, come spiega anche Maria Luisa Pacelli, mescolare mostre di qualità ad altre di poco o pochissimo valore diventa diseducativo e controproducente: la gente non riesce a distinguere tra mostra e mostra, si sente ingannata, non si fida più. Un’altra via, per abbattere i costi, seguita da molti compresa la fondazione ferrarese, è la partnership con altri musei. Nel caso dell’ultima mostra importante, quella su «De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie» (fino al 28 febbraio), con il museo di Stoccarda. Costata circa 1,3 milioni di euro, dimostra che la qualità non sempre ha costi insostenibili. Una domanda centrale per tutte le città che puntano sulle mostre, soprattutto medio-piccole come Ferrara (ma anche Padova, Forlì, Brescia, Treviso, Verona, Vicenza ecc.) è se questa politica serva al turismo e comunque all’indotto nel territorio.
La mostra è soltanto la punta dell’iceberg
Cerca una soluzione possibile anche Giovanni C.F. Villa, storico dell’arte moderna e della pittura veneta (è professore associato all’Università di Bergamo), museologo, dal 2006 al 2013 curatore scientifico delle Scuderie del Quirinale a Roma, da giugno 2015 direttore scientifico dei Musei civici di Vicenza. Sta tentando da anni di dare una sua impronta al mestiere di fare mostre che spiega così: «Le mie mostre sono legate da un filo rosso: ho lavorato ogni volta per il rilancio del concetto di territorio e della nostra cultura territoriale. Alle Scuderie del Quirinale ho curato un percorso di cinque mostre monografiche: Antonello da Messina, Bellini, Lotto, Tintoretto e Tiziano, per sottolineare l’importanza della pittura veneta per la storia dell’arte, dunque da Firenze e Roma fino a Venezia e Tiziano, primo grande pittore europeo iniziatore della pittura moderna».
Villa parla di un metodo, di un modello di mostre di successo che, spiega, non vuole essere soltanto «scientifico»: «Significa anche collegare una mostra monografica al territorio dell’artista e mettere insieme tutela e divulgazione. Per la mostra di Lorenzo Lotto, per esempio, la tutela si è tradotta nel restauro delle sue opere, costato circa 1 milione, e nel rilanciare i suoi territori: non soltanto opere in mostra anche nei luoghi di origine, ma concerti e conferenze. In Veneto, Marche e Bergamo hanno portato a un aumento del turismo culturale del 13%. La mostra insomma è soltanto la “punta dell’iceberg”. Lo stesso ho fatto con Cima da Conegliano, che nella cittadina veneta di 36mila abitanti ha richiamato 118mila visitatori. Costata 1,4 milioni di euro ha portato un indotto di circa 12 milioni. Palma il Vecchio, a Bergamo, costata 1,8 milioni ha realizzato un indotto di 15 milioni. Ma una curatela di questo genere è lavoro lungo, a tempo pieno. Per la mostra di Palma il Vecchio abbiamo avuto 900mila euro di contributi e sponsorizzazioni dal territorio, ma per ottenerle abbiamo fatto 483 incontri con industriali e produttori di ogni genere». Villa scommette su questa impostazione «virtuosa» del concetto di mostra. «Sostengo, dice con forza, che questo sia l’unico modello oggi percorribile. Le mostre si possono finanziare con il territorio. Sia le mostre alle Scuderie del Quirinale che le altre sono servite al rilancio del territorio e della nostra cultura territoriale».
A Vicenza, Villa ha preparato un programma pluriennale analizzando la città e le sue caratteristiche d’arte e di economia per applicarle anche ai musei. «Voglio sottolineare l’eccezionalità del museo sapendo che se non c’è il grande evento la gente non si muove: quindi la mostra parte dalle collezioni del museo ed è l’elemento di novità che attira il pubblico, ma intorno ha una serie di iniziative cosicché il pubblico che hai attirato sia fidelizzato con il museo. Da poco il Comune di Vicenza ha deciso di investire 1 milione di euro nella Pinacoteca civica, chiusa da 7 anni. Un’operazione rarissima, in controtendenza in Italia. L’Amministrazione usciva da una esperienza di mostre di successo fatte da Linea d’ombra di Marco Goldin, che in passato ha avuto grandi meriti anche perché non badava soltanto all’aspetto manageriale ma al coinvolgimento della società. Adesso il Comune si è reso conto che oggi il suo è un modello vampirizzante: porta gente ma impoverisce il territorio. Andiamo nella direzione opposta: investiamo sul lungo periodo per avere un cambiamento profondo per la città».
Conoscenza e narrazione
Gran parte delle mostre maggiori si tengono ormai al Nord. Firenze regge anche grazie alla sua struttura museale, Roma è in crisi e anche le Scuderie del Quirinale hanno perso l’appeal di un tempo. Se si escludono alcune esposizioni archeologiche a Napoli, il Sud è abbandonato a mostre di seconda scelta. Il caso Sicilia è deprimente. Antonio Gerbino, direttore di Civita Sicilia, è drastico: «Negli anni scorsi si erano aperte a Palermo alcune buone mostre legate all’arte dell’isola. Senza idee e senza dirigenti, non esiste più alcuna produzione originale o almeno legata al territorio. Le uniche mostre sono comprate a pacchetto come quelle di Botero e Ligabue al Palazzo dei Normanni o di Picasso a Catania. Non c’è altro».
Tra i curatori di mostre, Fernando Mazzocca è molto attivo ma ha scelto di restare uno specialista, uno storico dell’arte che si dedica all’Ottocento. È un convinto sostenitore dell’utilità delle buone mostre. «Sono entrate nel sistema culturale, come il museo, un mezzo per far conosce l’arte con una funzione didattica e divulgativa importante». Naturalmente ci sono mostre e mostre. Mazzocca definisce quelle a pacchetto e le blockbuster «soltanto una forma di consumo». La situazione, poi, è molto cambiata negli ultimi anni. Un tempo le mostre erano più rare, sostenute da fondazioni e finanziamenti pubblici; oggi è difficile mantenere l’equilibrio tra valore scientifico e divulgazione. «Come curatore lavoro con chi mi garantisce indipendenza e condivide con me la necessità della qualità e del rigore. Curo mostre della Cassa di Risparmio di Forlì e della Fondazione Zabarella di Padova. Sono anche legato a quelle della Banca Intesa: alle Gallerie d’Italia di Milano ho curato di recente la mostra di Hayez. In questo caso credo si tratti di un intervento rilevante anche perché circa il 70% delle opere esposte non si potevano vedere, nascoste nei depositi o in case private. Mi è sembrata un’occasione per far davvero conoscere questo artista. In generale cerco sempre di tradurre l’impianto conoscitivo in una dimensione narrativa che permetta al pubblico di capire e seguire il discorso della mostra: questo è l’essenziale». Resta aperto il problema del rapporto tra museo e mostre spesso più curate e meglio allestite delle collezioni permanenti. Si dice: soldi ed energie dovrebbero essere tutti dedicati allo stato dei musei. «È un rapporto difficile, concorda Mazzocca. Non è raro che i nostri musei siano poco frequentati e carenti rispetto alle richieste del pubblico e questo spiega perché hanno bisogno delle mostre per rilanciarsi. Purtroppo sono spesso di basso livello».
I musei? Complementari
Domenico Piraina ha un ruolo primario proprio a Milano, la fucina di mostre più vivace e attiva. Dirige il Polo Musei scientifici e Mostre del Comune, un doppio ruolo pubblico che ruota intorno alla grande macchina per mostre di Palazzo Reale. Dal 2011 ogni anno Milano è di gran lunga prima in Italia come numero di visitatori, sempre oltre un milione. «Le mostre, dice Piraina, sono anche un’ipotesi di museo, prototipi, esperienze che poi servono agli allestimenti museali. Il pubblico delle mostre è cresciuto enormemente nel corso degli ultimi trent’anni e penso ci siano delle buone ragioni. Secondo me, mostre e musei sono complementari. Del resto tutti i grandi musei del mondo puntano anche sulle mostre. Metterei tra i meriti delle mostre anche l’aiuto alla conservazione: grazie a loro si finanziano restauri e progetti di ricerca e studio. Sono volani di sviluppo che portano risorse ai musei».
I fondi per le mostre di Palazzo Reale vengono dal Comune, tra le poche amministrazioni che investono e con notevole successo. «Naturalmente, spiega Piraina, quei soldi non bastano. Una mostra pensata e realizzata da noi, con prestiti esteri, ormai carissimi, costa in media dai 2 ai 2,5 milioni. La gestione corrente del Palazzo costa al Comune oltre 600mila euro, circa un terzo della spesa necessaria per una buona mostra. Ecco perché è necessaria la partecipazione di soggetti privati che collaborano con noi, coproducono, investono e quindi rischiano sulla riuscita della mostra. Collaboriamo con tutte le imprese maggiori: 24 Ore Cultura ma anche Civita, Electa, Mondomostre e altre. Le strutture pubbliche non hanno più le risorse e i privati da soli non riescono ad andare lontano, perché quelle che contano sono le relazioni istituzionali: i contratti con i musei li firmiamo noi. A Milano questo equilibrio funziona».
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