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Michele Trimarchi
Leggi i suoi articoliNell’anno che sta per chiudersi, di turismo si è molto parlato. Ha compiuto due anni, senza che nessuno se ne sia accorto, la Venere di Botticelli in blue jeans (testimonial della campagna pubblicitaria «Open to meraviglia», commissionata dal Ministero del Turismo ed Enit, Ndr). Le polemiche sull’overtourism stanno sfociando in un incremento tributario per gli affitti brevi, gli scippi sistematici lungo il canalone della transumanza veneziana da Santa Lucia a San Marco (non è un pellegrinaggio, per quanto ci somigli assai) rientrano nel business as usual che inasprisce ogni tanto le pene ma ci si guarda bene dal prevenire e controllare. E stando ai dati nessuno ha ancora capito se davvero spiagge e alberghi siano stati abbandonati dai turisti oppure ne siano ingolfati. La neutralità d’analisi non è un pregio italiano.
I numeri dicono che il saldo del turismo è positivo: arrivi e pernottamenti sono cresciuti. Ora, mettendo a fuoco i pernottamenti (l’analisi puntuale è di Lorenzo Ruffino), emerge che dei 223 milioni registrati tra giugno e agosto, l’estate 2024 è superata di 11 milioni (+4%). Stessi arrivi, più pernottamenti. È un dato per molti versi incoraggiante sulla graduale sostituzione del turismo frettoloso con il desiderio, più lento e pacato, di esperienza e di incontro con le comunità territoriali. Guardando con più attenzione la composizione dell’armata turistica, ne risulta con cruda evidenza che gli italiani calano e gli stranieri crescono, tendenza già manifesta dal 2021, dopo la cesura pandemica ma non necessariamente a causa di essa (qui non vale granché il post hoc, propter hoc...). Dove vanno gli italiani? E quanto ci rimangono? Analisi e un po’ di esperienza informale suggeriscono una stasi piuttosto paludosa, a dispetto della vulgata un po’ sciovinistica che adotta senza scrupoli la doppia etichetta di «terra dell’arte» e «terra del turismo». Le stime, inevitabilmente variabili, parlano di un’incidenza del turismo sul Pil italiano che oscilla tra il 6 e il 12%. L’asticella dipende dall’inclusione di spese indirette che molti si compiacciono di enfatizzare e pochi si preoccupano di verificare (occorrerebbe infatti accertare rapporti causali diretti, spesa differenziale, grado di specializzazione, tutti argomenti di norma «coperti» dalla dissennata hybris autocelebrativa che flagella un dibattito in cui i proclami prevalgono sulle discussioni). Al di qua dei dati, salari bassi, occupazione frammentata, bassa produttività e una certa improvvisazione caratterizzano un settore tuttora convinto che il viaggiatore sia felice di «svenire» al cospetto del patrimonio culturale italiano, magari incoraggiato dall’enogastronomia della quale ci dichiariamo sovrani. Al calo del turismo interno corrisponde, da più fronti, la preferenza per i grandi poli della cultura, città d’arte e luoghi molto frequentati (in cui forse la certezza di presenze massicce rassicura i viaggiatori più incerti). Restiamo nella logica blockbuster. Esauriti gli impressionisti, sfilacciati i tenori, affaticate molte fiere d’arte (percepite come «clubbish»), tanto vale affollare i centri più convenzionali e pertanto più battuti. Gli ultimi rantoli della borghesia comoda si consolano con un turismo sempre più «di massa». Ovviamente la concentrazione nelle destinazioni più note fa pensare che si tratti di turismo culturale, dimenticando che della fiumana che devasta Venezia meno del 10% entra una volta in un museo, mentre indulge nell’ascolto di «’O sole mio» e trangugia gli spaghetti alla bolognese.
Ci sono buone notizie? Magari meno vistose, ma più incoraggianti. Si comincia davvero a costruire comunità intorno a territori per propria natura ricchi d’amor proprio e al tempo stesso ospitali: appena chiuso, l’Ottobre Alessandrino ha pervaso il tessuto urbano e sociale della città monferrina, offrendo un ventaglio esteso e versatile di occasioni e attirando pubblico in quella sana mescolanza tra residenti e viaggiatori che dovrebbe diventare la normalità del turismo culturale. Attraversata la penisola e lo Stretto di Messina, a Mazara del Vallo, città plurale da secoli e forte di quella finestra mediterranea che le permette di guardare lontano, la rigenerazione dell’archeologia industriale ha costruito Lauraurbana, un laboratorio multidisciplinare che invita artisti e coinvolge la comunità territoriale, tra residenze, mostre e incontri, rispondendo con dolcezza alla domanda di socialità che i grandi centri spesso dimenticano. Sulle sponde dell’Adriatico, da sempre canale di scambi e commerci, Santarcangelo Festival rispetta l’archetipo teatrale e sociale da cui nasce, e catalizza l’interesse di un pubblico esteso ed eterogeneo, confermando che il turismo culturale non è una gara tra presenzialisti d’occasione ma un crogiolo di visioni che sa ibridarsi. La crescita di progetti delicati, capaci di dialogare e orientati verso una creatività in ebollizione, offre un segnale magari non troppo rumoroso ma decisamente orientato alla società dei prossimi anni. Lezioni per il futuro, che forse le istituzioni dovrebbero studiare e sostenere, invece di cercare effetti speciali da operetta.
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La nostra giaculatoria autocelebrativa è una mistura ruffiana di arte, spiagge, cibo e simpatia
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