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«La prigione di Santo Stefano» (2011), di Rossella Biscotti. Documentazione della realizzazione

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«La prigione di Santo Stefano» (2011), di Rossella Biscotti. Documentazione della realizzazione

Una storia autobiografica dell’arte italiana

Due curatori (de Bellis e Rabottini) dialogano con 37 artisti loro compagni di strada

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Franco Fanelli

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La prima fu Angela Vettese, con il suo Artisti si diventa, uscito per Carocci Editore nel 2001 e giunto alla sua 15ma edizione; più scanzonato, Francesco Bonami nel 2013 pubblicò con Electa Mamma voglio fare l’artista. Istruzioni per evitare delusioni; empatico come sa essere ogni buon autore anglosassone di manuali sul fai da te, Jerry Saltz ci ha spiegato nel 2013 Come diventare un artista (Johan & Levi).

Che cosa hanno in comune con i tre testi citati le 720 pagine di Strata. Arte italiana dal 2000. Le parole degli artisti, opera di Vincenzo de Bellis e Alessandro Rabottini? Poco o nulla per quanto riguarda i contenuti; moltissimo se immaginiamo questo libro tra le mani di un giovane intenzionato a intraprendere uno dei mestieri, occorre pur dirlo, più inflazionati di questi anni.

Se soprattutto Vettese analizzava con estrema precisione i meccanismi del sistema dell’arte, ovvero dell’habitat dell’artista o aspirante tale, se Bonami con ironia elencava alcune avvertenze del tutto ovvie ma spesso sottovalutate (ad esempio, il fatto che per fare l’artista non basta piacere a dieci persone, ma a migliaia di potenziali acquirenti), se Saltz enumerava una serie di preziose realistiche massime (ad esempio: «Crea per oggi, non per domani»), nel libro appena uscito nelle edizioni Lenz con il sostegno della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, sono gli artisti stessi a esprimere in maniera molto chiara che cosa sia e che cosa faccia un artista oggi.

Sono in 37 a dialogare con de Bellis e Rabottini, il primo (classe 1977) direttore globale delle fiere e delle piattaforme espositive di Art Basel e il secondo (1976) attuale direttore artistico della Fondazione In Between Art Film. Entrambi curatori, hanno optato per la soluzione più ovvia: fare parlare gli artisti con i quali hanno lavorato.

Ne deriva la straordinaria possibilità di non arenarsi in una delle molte trattazioni saggistiche o espositive generazionali, ma di poter spaziare su artisti nati dagli anni Sessanta (come Elisabetta Benassi, Marcello Maloberti, Enrico David o Luisa Lambri) alla seconda metà degli anni Ottanta, come Diego Marcon o Giulia Cenci. Detto del criterio con cui sono stati scelti i 37 interlocutori, ciò che determina la cronologia di partenza, spiegano i due curatori, è il fatto che si tratta di artisti che hanno «iniziato ad avere una carriera professionale negli stessi anni in cui noi abbiamo iniziato a lavorare».

Non troveremo quindi né Maurizio Cattelan né Monica Bonvicini. Ci sono però, oltre ai già citati, autori notissimi e affermati, come Francesco Vezzoli, Marinella Senatore, Alessandro Pessoli, Adrian Paci, o artisti che sono già punti di riferimento per i più giovani presenti nel libro, come lo è, per Francesco Arena (1978), Giuseppe Gabellone (1973), nonostante i pochissimi anni che li separano, «perché, spiega Arena, il suo è un lavoro di tipo seminale sia per la generazione subito successiva alla sua, sia per la sua stessa generazione. Penso che il lavoro di Giuseppe sia estremamente complesso, stratificato, come approccio all’idea, al farsi dell’immagine, al farsi della scultura e alla corporeità e incorporeità di questa».

Il «farsi» appunto. Le parole degli artisti ci aiutano a capire anche come nasce e come si fa un’opera d’arte: esemplare, fra gli altri, il racconto di Rossella Biscotti sul concepimento e sulla realizzazione dell’opera «La prigione di santo Stefano», «un carcere costruito nel 1795 come un panopticon con lo scopo specifico di imprigionare gli ergastolani». Chiuso e abbandonato nel 1968, l’artista l’ha visitato «per la prima volta insieme all’attivista e amico Nicola Valentino, che ha trascorso ventotto anni in carcere, condannato all’ergastolo per aver fatto parte delle Brigate Rosse».

Come registrare la storia di quel luogo? «Ho realizzato una serie di sculture con sottili lastre di piombo che sono state prodotte martellando le lastre stesse sul pavimento della prigione per tracciarne le irregolarità, percependo come questi pavimenti erano stati usati e consumati, mappando e ripercorrendo ogni segno lasciato dalle persone che vi erano state imprigionate negli ultimi anni». La politica e le strutture di coercizione e potere sono il tema indagato dall’artista di origine pugliese, analogamente, ma in termini o modalità ovviamente diversi, da altri autori inclusi nel libro (dalla già citata Benassi a Lara Favaretto, da Adelita Husni Bey a Paola Pivi o a Marinella Senatore), così come lo sono la storia e la memoria (Rosa Barba, che filma spesso le rovine «per la loro polisemia», Adrian Paci, Luisa Lambri), ma più spesso queste categorie si intrecciano. O si «stratificano», espressione cui rimanda il titolo latino del libro, laddove «strata» è la struttura geologica risultante da più livelli materiali.

Inevitabili, in questi dialoghi (non interviste, è bene ribadirlo) l’affioramento delle influenze ricevute dall’Arte povera (Francesco Arena, Gianni Caravaggio) o l’importanza della formazione. Ricorre il nome di Alberto Garutti, professore a Brera di Roberto Cuoghi, Linda Fregni Nagler, Petrit Halilai, Giovanni Kronenberg, Alessandro Pessoli, ma anche il docente, ricorda il pittore Luca Bertolo, nella cui aula «il divieto di dipingere era esplicito».

Non è infrequente, nei dialoghi, la rivendicazione del concetto di materialità e manualità come elementi di fare arte: «All’Accademia di Brera, ricorda Kronenberg riferendosi alla sua formazione con Garutti, era molto forte (…) il biasimo non soltanto dell’idea accademica di istruzione ma anche, più in generale, delle competenze manuali (…). Ma quando sono uscito dall’Accademia, ho completamente ribaltato questa idea e oggi trovo una cosa misera quando si continua a prediligere la dinamica concettuale e ideativa di un’opera rispetto alla sua realizzazione. Oggi abbiamo completamente ribaltato il vecchio adagio di Duchamp “stupido come un pittore” perché non c’è nulla di più stupido che essere un artista concettuale».

Tema, questo della manualità e della tradizione, forse inevitabile trattandosi di artisti italiani, anche se per alcuni di loro la formazione si è completata all’estero. Eppure, afferma Pessoli, «capisco che nell’arte contemporanea italiana questo legame con la storia possa essere interpretato come una sorta di provincialismo di cui liberarsi il prima possibile, però per me è importante, mi sostiene, è la mia educazione sentimentale». Secondo Bertolo «La nostra epoca è ossessionata dal presente e si chiede spesso agli artisti di “prendere posizione” rispetto a questioni scottanti. In buona fede o per convenienza, sono spesso gli artisti a enfatizzare una componente di attivismo nel loro lavoro. Però a me sembra che la pittura sia un medium più ritroso di altri a cedere alla manipolazione in termini di comunicazione».

I 37 dialoghi, che, come spiegano de Bellis e Rabottini, sono anche una sorta di racconto autobiografico del loro lavoro di curatori, hanno dunque l’ulteriore pregio di svelare come per molti artisti il medium abbia un significato legato alla sua stessa tradizione, senza il ricorso alle classiche foglie di fico paraconcettuali o parodistiche. E, insieme, non manca chi, come Favaretto, non nasconde le crepe all’interno dello stesso statuto di «artista contemporanea» tradizionalmente intesa, la più profonda delle quali sembrerebbe essere l’autoreferenzialità, possibile causa di una «atrofizzazione del desiderio».

Mentre, spiega l’artista, «se oggi ci si interfaccia con un creatore di realtà aumentata (…) ci si accorge che loro hanno un approccio, una criticità e una progettualità che nasce per essere collettiva e quindi credono assolutamente che il risultato sia il risultato della collaborazione di tante professionalità e identità diverse. Ed è incredibile come loro riescano a fare immaginare una possibile realtà futura senza alcun autocompiacimento, anzi sono i primi a metterla in discussione». Pure, metamorfosi, ibridazione, complementarietà, compresenza di diverse discipline e linguaggi sembrano essere il comun denominatore di molti protagonisti di questo libro, e sempre a diversi livelli: è così per Giulia Cenci e per Roberto Cuoghi, per Giorgio Andreotta Calò o per Martino Gamper, il cui lavoro travalica i confini tra design, artigianato e arte, come ci spiega la scheda introduttiva redatta da Micola Clara Brambilla (gli altri ottimi «schedatori» sono Federico Florian e Bianca Stoppani).

Forse neppure questa raccolta di dialoghi può pretendere di spiegare «che cosa sia l’arte»; ma spiega piuttosto bene «come si fa arte» oggi (e non solo in Italia). È infine Maloberti a dirci «che cosa fa l’arte», o meglio che cosa dovrebbe fare e, gli artisti, evitare di fare: «L’arte di solito riaccende la vita, riaccende il sacro. L’arte fa scattare forme di umanità. A me piacciono i lavori in cui c’è sempre qualcosa che è un po’ il “fuori luogo”, però mi sembra che oggi, nella maggior parte dei casi quando si tratta di arte, manchi l’abbandono e che siamo tutti diventati degli spettatori professionisti, con dei codici ben precisi. Non bisogna sforzarsi di comporre qualcosa, né forzare l’accostamento di due elementi vicini. Dovremmo piuttosto cercare di comprendere le mancanze, perché alla fine, come dice Jacques Lacan, “manca la mancanza”».

Strata. Arte italiana dal 2000. Le parole degli artisti,
a cura di Vincenzo de Bellis e Alessandro Rabottini, 720 pp., 2023, € 25,00. Co-pubblicato in due edizioni, italiana e inglese, da Lenz e Les Presses du Réel
 

Le copertine delle due edizioni, italiana e inglese, del volume. Foto: Giacomo Bianco

«Can one lead a good life in a bad life» (2019), di Marinella Senatore. Cortesia dell’artista

Franco Fanelli, 25 settembre 2023 | © Riproduzione riservata

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