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Il piano del mobile (1751) di Pietro Piffetti recentemente riscoperto

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Il piano del mobile (1751) di Pietro Piffetti recentemente riscoperto

Un virtuoso committente in conflitto tra studio e gioco

Un inedito Piffetti per il marchese Morozzo della Rocca

Enrico Colle

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Raramente nella storia del mobile furono realizzati arredi in grado di raccontarci le vicende dei loro committenti, le loro passioni, finanche i pensieri più intimi, poiché pochi erano gli artigiani in grado di tradurre, senza il sostegno di un erudito, in forme e immagini, i desideri di illustri personaggi che, specie nel secolo dei lumi, volevano circondarsi di mobilia raffinata e, allo stesso tempo, unica relativamente al messaggio che volevano trasmettere. In Italia, il solo artista nel campo dell’ebanisteria che poteva radunare in sé tali doti di abilità professionale e di fervida capacità inventiva fu Pietro Piffetti.

Attivo in Piemonte sotto il regno di Carlo Emanuele III, Piffetti si formò nell’ambito degli intarsiatori operanti nell’Italia centrale e si dimostrò per tutta la sua vita artistica legato a quel concetto di meraviglia che era stato tipico dei canoni compositivi di Juvarra e, pur nel collegamento coerente con l’architettura alfieriana, l’intarsiatore non rinunciò ai morbidi sfiancamenti che, nell’evidente richiamo a forme seicentesche, trovavano temi corrispondenti nelle preesistenze barocche individuabili nelle architetture di Bernardo Vittone e di Ignazio Michela.

Tale persistenza, ammessa anche nei progetti più innovativi, soprattutto nel campo dell’architettura religiosa, portati avanti da Carlo Emanuele III in omaggio alla grande personalità di Guarini, si ritrova in un importantissimo cassettone di recente scoperto da Arabella Cifani e Franco Monetti al quale viene dedicata questa raffinata pubblicazione.

Si tratta di un mobile dalle forme massicce, tipiche dei cassettoni tardo seicenteschi o d’inizio Settecento, impreziosito da vistose applicazioni in bronzo dorato e decorato sul piano da una sofisticata composizione a tromphe l’œil, sul genere di quelle che Piffetti era uso inserire in alcuni dei suoi lavori per la corte, dove troviamo rappresentati delle carte da gioco, un paio di occhiali, una penna d’oca con un temperino, un rosario e il volume di padre Giovanni Battista Trona, Raccolta delle cose più principali spettanti alla Fede, alla Speranza, e alla Carità, aperto sul frontespizio con in basso, al posto del vero nome della stamperia, quello di Piffetti con la data 1751.

Tale indizio ha dato il via alle appassionate ricerche di Cifani e Monetti i quali, interpellando studiosi quali Vittorio Natale, Paola Bianchi, Andrea Merlotti, Lorenza Santa e Carlotta Venegoni, insieme al restauratore Thierry Radelet, hanno scritto e dato alle stampe una storia avvincente ambientata nella Torino di metà Settecento e che vede il fortunato incontro di tre grandi personalità: in primo luogo il marchese Giuseppe Francesco Ludovico Morozzo della Rocca, committente del cassettone, seguito dal venerabile Giovanni Battista Trona, padre oratoriano di Mondovì e autore, come si diceva, del volume intarsiato sul piano del nostro mobile e alla cui stampa contribuì in modo sostanzioso il marchese della Rocca, e infine Pietro Piffetti, a quell’epoca affermatissimo ebanista presso la corte sabauda, la stessa cui i Morozzo erano legati da secolare fedeltà.

La storia di questa famiglia, che possedeva un magnifico palazzo nel centro di Torino andato disgraziatamente distrutto durante l’ultima guerra mondiale, è stata indagata da Bianchi e Merlotti che hanno ricostruito le personalità dei vari componenti che alla spada anteposero gli studi giuridici divenendo abili ambasciatori e avveduti consiglieri dei sovrani sabaudi.

E fu proprio questa tradizione votata alla magistratura che portò il giovane marchese ad approfondire i propri studi seguito da precettori che lo dovevano preparare prima alla carriera ecclesiastica e poi a quella diplomatica presso i Savoia; ma egli preferì, alla vita di corte, rimanere più appartato accettando quei ruoli pubblici che non lo dovessero portare alla ribalta della società. Fu così che nel palazzo di famiglia egli invitò studiosi e letterari convincendo, tra l’altro, lo stesso Carlo Emanuele III a nominare nel 1748 Giovanni Battista Beccaria alla cattedra di fisica presso l’ateneo torinese. Ecco quindi spiegatigli occhiali e la penna d’oca, strumenti fondamentali per uno studioso, mentre il libro di padre Trona, contrapposto al gioco delle carte, intende sottolineare la linea virtuosa del nobile torinese e insieme mette bene in evidenza i rapporti di stima e di amicizia che legarono il religiosissimo marchese, cui allude infatti il rosario, al padre oratoriano.

Un mobile quindi che, perfettamente inserito nel palazzo ristrutturato da Alfieri per volere del Morozzo, doveva ricordare al proprietario e ai suoi discendenti, come scrive Guido Cornini, responsabile del settore Arti decorative dei Musei Vaticani, nella prefazione al volume, il contrasto «tra conoscenza oggettiva (le tre Virtù cardinali, evocate dal trattato del Trona) e conoscenza soggettiva (le seduzioni del mondo, evocate dalle distrazioni del gioco)», alludendo così «al perenne conflitto tra eternità e contingenza».

La Stamperia dell’ebanista. Storia di un mobile inedito di Pietro Piffetti, a cura di Arabella Cifani e Franco Monetti, 192 pp., ill. col. e b/n, Allemandi, Torino 2017, € 70,00

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Enrico Colle, 18 dicembre 2017 | © Riproduzione riservata

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